Tibet? Altro che repressione! Pechino celebra la 'liberazione' pacifica

PECHINO – Da mesi la Cina è mobilitata per le celebrazioni del 90/esimo anniversario della fondazione del Partito Comunista Cinese (Pcc). Ma il 2011 segna anche il 60/esimo anniversario di quella che i cinesi chiamano la ''liberazione pacifica'' del Tibet: per celebrarla è stata aperta una mastodontica mostra nel Palazzo della cultura delle minoranze, uno dei dieci ''grandi edifici'' costruiti negli anni cinquanta per volere dell' allora presidente Mao Zedong.

Edificato in puro stile stalinista, il Palazzo è un casermone bianco sormontato da un tetto con pretese orientaleggianti sulla Changan Jie, la via della Lunga Pace che taglia Pechino da est ad ovest, a pochi passi da Zhongnanhai (il lago centromeridionale), il complesso residenziale costruito intorno ad un lago artificiale dove vivono i principali dirigenti del Partito.

La mostra occupa tre grandi sale e il suo tema dominante è il progresso portato in questi decenni in Tibet dalla Cina e la felicità che ha ispirato alla popolazione locale. Non sorprende che i più recenti avvenimenti nella Regione Autonoma del Tibet, che è stata chiusa ai turisti stranieri per tutto il mese di luglio (non ufficialmente, ma gli agenti di viaggio dicono che non possono accettare prenotazioni) siano ignorati, così come quelli in corso in altre aree a popolazione tibetana, come Kardze nella provincia del Sichuan, dove secondo l'attivista in esilio Jampel Monlam, ''più di 60 persone'' sono state arrestate questa settimana in seguito a proteste anticinesi, o il monastero di Kirti, dove sono stati effettuati a partire da marzo decine di arresti.

I visitatori sono soprattutto studenti portati in gita dai professori o giovani agenti della polizia militare, che sembrano più impegnati a fotografarsi l'uno con l'altro che a leggere i pannelli che illustrano gli ''splendidi risultati'' di sei decenni di ''liberazione''e ''l' eccellente situazione'' del Tibet.

Particolare successo ha la sezione ''prima e dopo'', nella quale vecchie fotografie di tibetani poveri e stracciati sono accostate a quelle dei tibetani di oggi, che siedono ben vestiti davanti a tavole imbandite di leccornie. ''Questo è com'era prima e questo è com'è ora'', dice una madre alla figlia di una decina d'anni, che guarda meravigliata le foto.

Il 1951 è stato scelto come data della ''liberazione'' perché quell'anno fu siglato a Pechino il cosiddetto ''accordo in 17 punti''. L'accordo aprì la strada all'ingresso in Tibet dell'esercito cinese, che ebbe gioco facile nel vincere la resistenza dell'esercito tibetano, male armato e male organizzato.

Anni dopo, quando era già fuggito in India in seguito alla fallita rivolta di Lhasa del 1959, il Dalai Lama affermò che i suoi rappresentati erano stati ''costretti'' a firmare l'accordo. Non per niente nella mostra il leader tibetano non viene mai nominato eccetto che nella didascalia di una foto del 1956, nella quale il suo volto è invisibile.

Un grande schermo al centro della prima sala ripropone invece in continuazione le immagini dell'elezione dei nove membri del comitato permanente dell'ufficio politico – il massimo organo del Partito e del Paese – la cui ''illuminata leadership'' ha portato il Tibet a conoscere ''il miglior periodo della sua storia''.

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Maria Elena Perrero