Putin e Berlusconi hanno in comune anche la vanità. Berlusconi, malgrado la sua veneranda età (un età in cui i più riflessivi contemplano già il mistero della morte e ponderano sull’ormai appassita vita sensuale) si traveste da eterno Casanova, cura la sua immagine, fisica e pubblica, spesso a suon di costose, vistose e in fondo ineleganti operazioni estetiche, degne di un uomo fatuo, non di uno statista.
Al di là degli Urali, Putin si compiace a farsi riprendere torso nudo, col fisico modellato dell’ex-agente del KGB, mentre è a caccia di tigri in Siberia, di preferenza davanti a delle telecamere. L’ultimo della triade, il primo ministro turco, Erdogan, è un musulmano pio e praticante ed è dunque più corazzato contro i morsi della vanità.
Dal punto di vista dell’intolleranza alle critiche, Erdogan non è però da meno degli illustri omologhi. Le sue feroci battaglie contro giornali indipendenti e critici ne hanno mostrato, a più riprese, l’incompatibilità caratteriale con il nucleo più profondo della democrazia, la libertà di opinioni. E dire che l’uomo controlla direttamente o indirettamente, tramite partecipazioni statali o rapporti amichevoli, una bella fetta della comunicazione turca. Ma non basta, perché come dice, con una spudorata mancanza di modestia: «Non si può coprire di fango il sole».
Erdogan ha anche, o meglio aveva, qualcos’altro in comune con Berlusconi, l’ossessione per una revisione costituzionale. Ed è qui che Erdogan è riuscito dove Berlusconi finora ha fallito, cambiando quella costituzione che doveva, deve “modernizzare il paese”. Grazie a questo successo, il primo ministro turco impone un cambiamento storico nel panorama politico del paese, e proietta l’AKP, il partito governativo, con un nuovo slancio verso le ormai vicine elezioni politiche.
Il tentativo di cambiare la costituzione turca (la costituzione turca fu redatta durante il governo militare che segui il putsch militare dell’80 e votata al 93 per cento da un seguente referendum popolare) era fallito nel 98. Ieri, 12 settembre 2010, la Turchia ha votato inequivocabilmente per il cambiamento. Il giorno è stato simbolico anche per la data, scelta non senza qualche malizia. Si trattava dell’anniversario dei 30 anni del colpo di stato militare.
L’interpretazione data dagli analisti internazionali a questo evento è ambivalente. L’Unione Europea ha sostenuto il referendum costituzionale e si è affrettata a salutarlo come un “passo nella giusta direzione”. I cambiamenti dell’ordine costituzionale prevedono un maggiore controllo da parte della magistratura sui militari che saranno d’ora in poi giudicati da tribunali civili. Da questo punto di vista, la modifica costituzionale è vista a Bruxelles come uno sforzo nella strada verso la modernizzazione, verso un paese, cioè, dove la legge civile prevale sulla forza dell’esercito.
I militari sono stati fin dalla nascita della Turchia moderna con Mustafa Kemal Ataturk, ufficiale militare anch’egli, una fazione politica ingombrante. L’esercito, che si ritiene fiero e inflessibile della laicità dello stato voluta da Ataturk, ha firmato ben tre colpi di stato nel dopoguerra, l’ultimo nel 1980, e ancora pochi mesi fa una ventina di alti ufficiali sono stati arrestati con l’accusa di preparare un complotto per spodestare Erdogan. Il referendum è dunque la salutare, dal punto di vista di Bruxelles, marginalizzazione delle forze armate dalla vita politica turca ma anche la personale vittoria del premier ministro turco, capo di un partito islamico, contro una fazione a lui ostile.
Il referendum è, non da ultimo, l’illustrazione eclatante di nuovi rapporti di forza nel seno della società turca, e può essere storicamente visto come una tappa simbolica di un processo i cui contorni si stanno rivelando sempre più chiaramente. Se fino ad oggi, il potere è sempre stato tenuto in mano dalle élite laiche, urbane, pro-Europa dell’Ovest del paese, si è ormai affermata una classe media musulmana, nazionalista, e revisionista (dal punto di vista costituzionale) originaria dell’Anatolia centrale.
Tra i 26 articoli che modificano la costituzione del 1980, diversi sono senza dubbio degli importanti avanzamenti nel diritto del lavoro, economico, di sciopero. Su altri, c’è più da riflettere. La spinta democratica che vede l’Europa in questo referendum è parzialmente contraddetta da uno dei punti più controversi della riforma, quello che prevede una rimodellamento della Corte Costituzionale e l’influenza determinante del Capo dello Stato su di questa. Congiuntamente alla relegazione dei militari fuori dall’agone politico, tale cambiamento determinerà un inedito accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo. «Anche noi siamo contrari al fatto che i militari esercitino un’influenza politica eccessiva – dice Kemal Kilicdaroglu, leader del principale partito della sinistra turca – non vogliamo nemmeno assistere ad un putsch civile».
Giova ricordare che l’Erdogan tanto acclamato dagli europeisti non ha una coscienza politica democratica senza macchia. La sua battaglia contro il gruppo editoriale di Aydin Dogan, reo di criticare l’operato del governo, ha portato all’adozioni di pesantissime, e inedite, multe contro la compagnia, che, se effettivamente messe in atto, porteranno alla bancarotta immediata del gruppo. Erdogan e i suoi sostenitori hanno sempre negato che dietro le misure finanziare si celino motivazioni politiche. Non si sono rivelati dello stesso avviso diverse istituzioni sopranazionali come l’Unione Europea e l’Osce che hanno manifestato a più riprese le loro preoccupazioni sullo stato di salute della libertà di impresa e di stampa in Turchia. Poche settimane prima delle sanzioni, il primo ministro turco aveva invitato – vi ricorda qualcuno? – ad un «coraggio civile» nei confronti dei giornali dell’opposizione. Un Erdogan in stato di ispirazione, aveva perfino trovato delle parole profetiche contro Hurriyet, il giornale suo nemico, tuonando dal pulpito del suo convegno «Condannateli alla povertà».
La storia che Hurriyet stava raccontando, prima che il quotidiano fosse colpito dalle folgori giudiziarie, era l’incredibile vicenda dell’appropriazione indebita dei fondi di un’associazione benefica tedesca. L’istituto raccoglieva soldi per gli istituti di carità musulmana ma parte ingente di questi, 41 milioni di euro, secondo la magistratura di Francoforte, sono andati ad arricchire membri e simpatizzanti del partito islamico di Erdogan, un partito che d’altronde ha sempre fatto un motivo di orgoglio ed uno slogan elettorale della sua estraneità all’endemica corruzione turca. I soldi, particolare grottesco che evoca più di un ricordo ai cittadini italiani, venivano portati in delle grosse valigie, che dalla Germania finivano negli uffici di un’emittente televisiva pro-governativa.
Come dire che la democrazia non va sempre a braccetto con la modernità.