
ROMA – Furono due i personaggi principali del “dramma” del 25 luglio, Benito Mussolini e Dino Grandi, da sempre, nella ricostruzione della seduta del Gran Consiglio del Fascismo, che portò alla sua caduta, scritta sul Messaggero da Giovanni Sabbatucci,
“amico-rivale e rivale di Mussolini (all’inizio da posizioni intransigenti, poi come esponente dell’anima “moderata” e monarchica del regime), più volte ministro e soprattutto firmatario dell’ordine del giorno che, chiedendo al re di riprendersi «l’effettivo comando delle Forze Armate», suonava implicita sfiducia nei confronti del Duce”.
Ricorda Giovanni Sabbatucci che
“Mussolini affidò le sue riflessioni sul tema a un rancoroso pamphlet (Storia di un anno) uscito nel 1944 nella Milano della Repubblica sociale. Grandi tacque per molti anni, dall’esilio volontario che aveva scelto quando, dopo essere fuggito a Lisbona, aveva deciso di rifarsi una vita in Brasile. Solo nel 1983, quando aveva ottantotto anni e da tempo era rientrato in Italia, acconsentì alle insistenze di Renzo De Felice e pubblicò per il Mulino (ora ripubblicato per il settantesimo) un lungo memoriale che in realtà aveva scritto pochi mesi dopo i fatti ma che aveva poi deciso di tenere nel cassetto, coerentemente alla sua scelta di restare lontano dalla politica. […]
Leggerlo ci può aiutare a sciogliere alcuni dei molti interrogativi […], due in particolare:
1. perché Mussolini cadde nella trappola e accettò di convocare il Gran Consiglio, quando sapeva della manovra che si stava consumando ai suoi danni e conosceva il contenuto dell’ordine del giorno (anche perché lo stesso Grandi glielo aveva comunicato)?
2. che cosa si proponevano i congiurati del 25 luglio, quali scenari immaginavano per l’immediato futuro dell’Italia, in una situazione militarmente ormai compromessa? Che cosa pensava, in particolare, il capo della congiura, che all’epoca non aveva ancora cinquant’anni (oggi sarebbe considerato un politico giovane)?” […]
Risposte:
1. “Mussolini forse non si fidava più del re, che pure non lo aveva mai abbandonato nei momenti difficili, a cominciare dal delitto Matteotti; non poteva ignorare il lavorio di generali e di politici pre-fascisti attorno alla corte, ma riteneva improbabile che Vittorio Emanuele III venisse meno al suo tradizionale formalismo (in fondo il voto del Gran Consiglio non aveva rilevanza costituzionale), attuando qualcosa di simile a un colpo di stato.
Un mezzo passo indietro avrebbe magari consentito al duce di prendere tempo, in attesa di una svolta politica (la pace con l’Urss) o militare (le favoleggiate armi segrete) del conflitto mondiale”.
2. “Tra i gerarchi, molti speravano solo di limitare i danni e di uscire dignitosamente dalla guerra. Pochi, come Grandi, arrivavano a prendere in considerazione un cambio di fronte. Nessuno, probabilmente, aveva ben realizzato che cosa era successo nella Conferenza di Casablanca del gennaio ‘43, quando gli angloamericani avevano adottato la linea della resa incondizionata per le potenze dell’Asse.
Nessuno aveva capito che il regime era irriformabile (nello stesso ordine del giorno Grandi si parlava ancora di corporazioni e si faceva riferimento a un Parlamento che in realtà non esisteva più in quanto organo elettivo).
“A cancellare ogni ipotesi di transizione “dolce” sarebbe poi arrivato il disastro dell’8 settembre, che avrebbe azzerato la credibilità della monarchia e l’operatività, anzi la stessa esistenza, delle Forze armate. Così che quello che era cominciato come un complotto di palazzo si trasformò nell’inizio di una rivoluzione: la lunga rivoluzione da cui sarebbe nata la Repubblica democratica fondata sull’antifascismo e sul protagonismo dei partiti che avevano combattuto il regime”.
