
ROMA – Maurizio Crozza non andrà alla Rai e resta a La7. Colpito dalla crociata di Brunetta-Savonarola Crozza ha firmato un triennale con La 7. Per Andrea Scanzi, dalle pagine del Fatto Quotidiano (18 ottobre), Crozza è “il satirico ideale delle larghe intese”:
Contratto in esclusiva, Ballarò a parte. Stasera ripartirà Crozza nel paese delle meraviglie, otto-nove puntate comunque mai in discussione. Poi altri tre anni su La 7, a partire da un nuovo show in primavera. Nato il 5 dicembre 1959 a Genova, Crozza è il comico più conteso della tivù italiana. Significa che è anche il più bravo? Piace a molti, non a tutti. Anche la sua nuova imitazione di Matteo Renzi, intravista negli spot, ha diviso.
FUNZIONANO testi e mimica, che sottolineano “le praline dell’ovvio” di un politico bravissimo a non dire nulla (col cipiglio però di chi scopre per primo l’acqua calda). Meno centrata la voce. I detrattori esistono e sono numerosi. La critica più frequente è che “Crozza è solo un interprete”. Non scrive i testi, ma si affida a un gruppo di autori. Peraltro bravi. Alcuni, come Alessandro Robecchi e Andrea Zalone, sono anche ottime spalle negli sketch. È vero che le battute di Crozza non sono quasi mai sue, e non perché le copia (come qualcuno sostenne su Twitter), ma perché altri le creano per lui. Attaccarlo per questo sarebbe però come dire che Mina non è brava perché si limita a cantare testi altrui. Esistono interpreti e cantautori, e gran parte dei comici italiani sono “solo” interpreti. Quei pochi che operano perlopiù in proprio, come Corrado Guzzanti, sono tanto geniali quanto pigri. Altri, come Daniele Luttazzi, avevano fatto dell’autarchia creativa un vanto personale, che poi però gli si è ritorto contro. Beppe Grillo non avrebbe avuto il successo che ha avuto, negli anni Ottanta, senza i testi di Antonio Ricci e Michele Serra.
Il comico non è obbligato a scrivere da solo e molte battute di Crozza funzionano proprio perché le dice Crozza. I suoi limiti, casomai, sono altri. In primo luogo l’incapacità di improvvisare. Se ne è avuta prova all’ultimo Festival di Sanremo: è bastata una piccola contestazione, forse pilotata, per bloccarlo e azzerargli la salivazione. Il primo Roberto Benigni, un altro che si faceva scrivere i testi da Giuseppe Bertolucci, si esaltava di fronte all’imprevisto. E così Grillo. Crozza, no. Forse gli è mancata la gavetta sufficiente sulla strada, nelle piazze e nelle sagre. Crozza è poi bravo su breve e media distanza. È un centometrista della risata, non un maratoneta. Fa fatica a reggere le due ore in scena. Per questo è efficace in tivù: perché si esprime per pillole e perché spazia. Perché si trasforma in un jukebox che passa dal politico allo chef: dalla battutaccia alla canzonetta. Alto e basso.
NELL’ECLETTISMO dell’imitazione ha pochi rivali, mentre come satirico è più attaccabile. A Ballarò fa ridere quasi tutti, e anche questo è un pregio a metà, perché se funzioni “troppo” in un contenitore deliberatamente disinnescato vuol dire che forse non sei così scomodo. Negli anni ha fatto arrabbiare molti politici, che spesso lo interrompevano per mandarlo fuori giri, ma ormai quasi tutte le vittime sorridono (o fingono di sorridere) di fronte a quella che ambirebbe a essere satira e si confà piuttosto come ottimo sfottò.
Verrebbe da chiosare che Crozza è il satirico ideale per questi tempi di larghe intese, perché addenta la preda senza mai stringere veramente la presa. Vero in parte. Crozza sa colpire, sebbene da anni si sia attestato in una sorta di deliberata terra di mezzo: quella del quasi-Grillo. Crozza ne condivide molte istanze, ma non è mai iconoclasta e “violento” come l’amico (e forse maestro). Il miglior Crozza non è quello politico bensì quello leggero. È così da sempre: quando militava nei Broncoviz, quando a Mai dire Gol imitava Arrigo Sacchi, quando dalla Ventura scimmiottava Zichichi (“Eravamo io, Benjamin …”). E adesso, quando raggiunge l’apice con Briatore e Bastianich, Montezemolo e Marchionne. Persino quando colpisce i politici, lo fa privilegiando la caricatura (spesso efficace: Ingroia, Brunetta) alla demolizione. Somiglia più a Neri Marcorè, o paradossalmente a Fiorello, che a Corrado Guzzanti. Più imitatore che satirico, più comico che guastatore, crea tormentoni con facilità rara (“Vuoi che muoro?”, “Con viva e vibrante soddisfazione”). Negli anni Ottanta e Novanta sarebbe parso bravo come tanti. Oggi vince perché ha talento. Molto. E per la concorrenza televisiva. Poca.
