ROMA – Al degrado dei beni culturali in Italia, Franco Tatò, amministratore delegato della Enciclopedia Treccani ed ex amministratore delegato della Mondadori, ha una cura da opporre:
“I privati possono assicurare un contributo straordinariamente positivo per il futuro del Patrimonio culturale italiano. Ma a precise condizioni: cioè che il cittadino abbia la totale certezza che il bene verrà restaurato e valorizzato solo ed esclusivamente per fini e interessi sociali. Cioè che assicuri profitti al privato investitore, altrimenti per lui non ha senso: ma realizzando uno scopo saldamente legato alle esigenze della collettività. Che, non dimentichiamolo mai, è la vera e unica proprietaria del Patrimonio culturale italiano”.
Intervistato da Paolo Conti per il Corriere della Sera, Franco Tatò ha detto:
«Ciò che ha potuto fare fino a oggi lo Stato per il settore dei Beni lo vediamo ogni giorno, basta sfogliare le cronache dei giornali. C’è un degrado evidente, tangibile. Riguarda sia i luoghi che l’incapacità di gestirli. Molto spesso questo nostro Stato si comporta persino come imprenditore inefficiente, sbagliando le gare o perdendo fondi europei».
E qui si arriva facilmente al ruolo dei privati. Ma non è un automatismo fin troppo semplice ed evidente? Non si rischia così di svendere ciò che è tutelato dall’articolo 9 della nostra Carta Costituzionale?
«Assolutamente no. Semplicemente perché bisogna partire dall’idea che il bene dev’essere restaurato e reso fruibile solo e soltanto per essere messo a disposizione della cittadinanza. Io penso a un modello americano: l’investimento del privato per il restauro e la gestione dei beni culturali dev’essere interamente deducibile dal punto di vista fiscale. Quella detrazione fiscale diventa l’intervento economico dello Stato. La capacità manageriale del privato si trasforma nella garanzia di serietà e di efficienza. Lo scopo ultimo, appunto, la consegna alla comunità, a sua volta rappresenta un’ulteriore assicurazione che non ci sarà non solo distruzione del bene ma nemmeno una sua trasformazione in qualcosa di irriconoscibile. Vorrei essere chiaro: in tanti parlano del nesso tra turismo e beni culturali. Per me è un fatto secondario. Quello primario è la fruizione sociale del Patrimonio: aiutare gli italiani a viverlo, a non considerarlo una rovina, a capire che lì sono le radici dell’identità. Le chiusure di tanti tesori, la loro caduta in rovina, creano distanza e estraneità».
E la tutela? E la certezza che il Patrimonio non venga di fatto privatizzato? O, anche, non venga deturpato da interventi inidonei?
«È del tutto evidente che occorre un organismo di controllo e di tutela che vigili severamente su simili, delicati processi».
Quindi lei non pensa che il vincolo di legge sia un laccio fastidioso?
«Certo che no. Lo ripeto: il controllo è essenziale».
Lei pensa alle soprintendenze? Sono organismi, negli ultimi tempi, al centro di durissime polemiche. Qual è la sua posizione?
«Ben vengano le soprintendenze. Ma a patto che siano rivoluzionate. Una diffusa logica puramente conservativa e lontana dalla valorizzazione è in parte responsabile del degrado che sappiamo. Occorrono soprintendenze attive e dinamiche, attentissime alle esigenze della tutela, ma anche capaci di contestualizzare il bene in una realtà sociale che ne ha bisogno».
Non bastano le sponsorizzazioni? «Come abbiamo visto, no, non bastano. E c’è chi continua a parlare del ruolo dei privati e ha in mente solo bar e caffetterie. Un atteggiamento povero e riduttivo. In Italia, è ancora difficile immaginare uno Stato che assicuri le regole e non si trasformi in un protagonista incapace. Si potrebbe cominciare proprio dai beni culturali per sperimentare un nuovo modello: uno Stato che smetta i panni dell’imprenditore collocato sullo stesso piano degli altri privati. Con una differenza: che quei privati rischiano patrimoni propri, lo Stato quello di tutti».