ROMA – Scuole superiori di solo 4 anni: il tema, lanciato dal nuovo ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, è trattato dalla Stampa con due articoli, uno di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli e uno di Francesca Sforza, che presenta un aggiornamento di progetti, discussioni, polemiche.
Nei primi giorni del suo mandato la neo-ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, ha messo sul tavolo, con un certo coraggio e senza timore di scontentare le componenti più conservatrici del mondo scolastico, molti dei temi cruciali per il futuro della scuola: l’edilizia, il rilancio del ruolo e del prestigio sociale dell’insegnamento, la valorizzazione del merito, la chiamata dei docenti da parte dei singoli istituti, la dispersione, il bonus maturità e, infine, la riduzione a quattro anni del ciclo di istruzione superiore (che riguarda licei, istituti tecnici e professionali).
Quest’ultima questione, pur essendo meno urgente delle altre, interessa molto da vicino le famiglie e gli studenti italiani, che si preoccupano in misura crescente del livello di competenze, per la vita e per il lavoro, che la scuola è oggi in grado di fornire. Le sperimentazioni in alcuni istituti statali e paritari, avviate dal ministro Carrozza, hanno acceso un vivace dibattito, destinato a continuare nei prossimi mesi.
Diciamo subito che l’idea di conseguire il diploma di maturità a 18 anni, anziché a 19, è condivisibile. Ma lo è per un motivo diverso da quello dell’allineamento alla prassi europea, che viene spesso citato. Non è vero che terminare la scuola a 18 anni sia la norma in Europa: in circa metà dei Paesi la scuola secondaria si conclude infatti a 19, con età di inizio molto variabili. L’argomentazione secondo cui gli studenti italiani risulterebbero svantaggiati dall’entrare nel mercato del lavoro o all’università un anno dopo i loro coetanei europei non mi convince del tutto: piuttosto, il vero grave ritardo è quello accumulato all’università, dove i nostri ragazzi impiegano in media 7 anni e mezzo per giungere alla laurea magistrale, contro i 5 prevalenti altrove.
Mi convince, invece, molto di più la tesi secondo cui la conclusione della scuola a 19 anni è il retaggio di un mondo in cui i tempi di apprendimento erano lenti e rarefatti. Oggi i ragazzi apprendono e diventano autonomi in fretta: a 18 anni possono votare; a 39 possono diventare presidente del Consiglio. Tenerli inchiodati un altro anno al banco di scuola genera spesso noia e disamore per lo studio. Avrebbe molto più senso utilizzare il tempo risparmiato nelle superiori più in là nella vita, per aggiornarsi sul lavoro o imparare cose nuove in un contesto di saperi e tecnologie in continuo mutamento: come succede nei paesi scandinavi, dove il 30% degli adulti partecipa a programmi di educazione permanente.
Ridurre la scuola superiore a quattro anni comporta comunque due rischi. Il primo è quello della cosiddetta «onda anomala», per cui nell’anno di passaggio due generazioni di studenti (l’ultima a terminare il ciclo di cinque anni e la prima a iniziare quello di 4 anni) si riverserebbero insieme sull’università o sul mercato del lavoro: questo richiederebbe un temporaneo «raddoppio» delle strutture accademiche e comporterebbe un aumento dei disoccupati, rendendo probabilmente vani i risparmi di spesa (ipotizzati in circa un miliardo e mezzo) conseguenti al taglio di un anno di scuola. La riforma dovrebbe essere quindi applicata progressivamente in modo da trasformare l’onda in tante piccole increspature.
La seconda preoccupazione è che la riduzione si realizzi attraverso una semplice «restrizione del curricolo», ovvero tagliando qua e là i programmi per comprimerli in quattro anni. Guai a immaginare i contenuti di un ciclo più breve come quello precedente, ma «in pillole»: sarebbe una scelta autolesionistica, che abbasserebbe ancora di più i livelli di apprendimento dei nostri studenti al termine degli studi. È evidente che la riduzione di un anno del ciclo secondario dovrebbe comportare un ripensamento di tutto il percorso scolastico, a cominciare dalla scuola dell’infanzia: solo riorganizzando gli apprendimenti alle diverse età, scegliendo che cosa è davvero importante che i ragazzi imparino, adottando nuove didattiche, il passaggio a 4 anni porterebbe a un miglioramento della qualità della scuola.
Che si possa fare lo dimostra l’esperienza della provincia canadese dell’Ontario, la più importante del Paese, dove nel 2003 il termine della scuola superiore venne abbassato da 19 a18 anni: con l’occasione vennero reimpostati i contenuti di tutto il ciclo scolastico. A distanza di dieci anni, l’Ontario ha aumentato il numero di diplomati e ha visto migliorare nettamente i risultati dei test Pisa sugli apprendimenti.
«Ripartire dalla scuola», recita l’incipit del governo Renzi. Che non significa solo redigere la lunga lista di bisogni e carenze, ma anche fare della scuola la piattaforma su cui misurare le idee di futuro. Ha cominciato ieri il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, sollevando un tema importante ai microfoni di Radio1: «Il liceo di quattro anni? È una sperimentazione su cui ho bisogno di approfondire, ma non ho pregiudizialmente nulla in contrario perché se i ragazzi escono prima e ben preparati va bene». Il ministro ha toccato molte questioni, tra cui anche quella degli stipendi dei professori: «Sarebbe un bel passo avanti equipararli e quelli medi europei», ha detto.
Cronistoria del progetto
Il primo a proporre l’abbreviamento di un anno del ciclo scolastico fu Luigi Berlinguer nel 2000. La riforma prevedeva il mantenimento dei 5 anni di liceo, e un accorpamento di elementari e medie per un totale di sette anni. I nostri studenti avrebbero così avuto la possibilità di entrare un anno prima nel circuito universitario, trovandosi alla pari con i loro colleghi europei, americani, indiani, cinesi.
L’arrivo nel 2001 di Letizia Moratti al ministero dell’Istruzione segnò la fine del progetto, che non venne resuscitato dalla Gelmini né da Francesco Profumo, che pure in linea di principio si dichiarò più volte d’accordo con la riduzione del ciclo scolastico.
Un sistema in discussione
Non è solo un anno di meno. La riduzione del ciclo scolastico impone una radicale messa in questione del sistema educativo. Ad esempio: ha più senso far cominciare la scuola a cinque anni o tagliare di netto l’ultimo anno di liceo? Nel primo caso bisognerebbe ripensare la scuola dell’infanzia, nel secondo quella superiore. E ripensare significa rimodulare la programmazione, introdurre o eliminare materie, e ragionare su nuovi o diversi organici. O ancora: perché non ristrutturare la scuola media, che spesso è una ripetizione allungata di cose fatte alle elementari e abbreviata di quelle che si rifaranno al liceo? Comprensibili le obiezioni del fronte sindacale, che in più occasioni, di fronte alla prospettiva di acrobatici salti nel vuoto, si è trincerato dietro il muro del «non ci sono le condizioni in questo momento», oppure «prima gli investimenti». Obiezioni frenanti, si dirà, ma indicative del fatto che le conseguenze vanno studiate su tutta la filiera, non sul singolo segmento.
Tecnici o umanisti?
Nella grande piattaforma online dei siti che si occupano di scuola, da Orizzonte Scuola a Skuola.net a GoNews, si coglie un altro aspetto del dibattito che fa riflettere sull’ampiezza del problema: la tradizionale separazione tra l’ambito scientifico e quello umanistico, il primo più propenso ad abbreviare il ciclo scolastico per rendere più agile l’affaccio al mondo del lavoro o all’esperienza all’estero, il secondo con la tendenza a conservare i tempi di un apprendimento «slow», che punti all’approfondimento e alle conoscenze di lungo termine.
II fattore costi
Su tutti, regna sovrano l’interrogativo su costi e benefici, in assenza di nuovi fondi. La riduzione di un anno di scuola porterebbe a un risparmio tra i due e i tre miliardi di euro, e la conseguente perdita di circa 40 mila cattedre. Ma in alcune città le sperimentazioni sono già partite, ad esempio al liceo internazionale per l’impresa Guido Carli di Brescia o in tre licei veneti che si sono accordati con Ca’ Foscari per accedere prima all’Università. Il rischio è che si vada avanti in ordine sparso, fuori da un quadro comune di riferimento.