Con Enrico Letta “riforme zero, Italia ferma, pensa solo alla spesa pubblica”

Tobias Piller. Ha scritto n duro articolo contro Enrico Letta su n giornale tedesco

L’inutile attivismo del primo ministro Enrico Letta sul piano internazionale è il tema centrale di n duro articolo sulla crisi italiana scritto da Tobias Piller, corrispondente dall’Italia della Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Scrive Tobias Piller, secondo la traduzione del suo articolo pubblicata dal sito Voci dalla Germania, che

“il risanamento dell’economia italiana non fa passi avanti”.

L’articolo di Tobias Piller è anche al centro dell’editoriale “Orsi e Tori” scritto da Paolo Panerai per Italia Oggi: la Frankfurter Allgemeine Zeitung, che si stampa a Francoforte, è, spiega Paolo Panerai,

“il quotidiano che dedica più attenzione (un’attenzione fortemente critica) all’Italia. E il suo corrispondente da Roma, Tobias Piller, è anche il giornalista tedesco più noto in Italia, l’unico che viene regolarmente invitato ai dibattiti televisivi”.

L’ultimo editoriale di Tobias Piller è

“molto duro, in particolare nei confronti del presidente del Consiglio, Enrico Letta”. «Non aiuta (l’Italia)» quello che il presidente del Consiglio Enrico Letta racconta all’estero”.

Prosegue la traduzione di Voci dalla Germania:

“Non serve a molto che il Presidente del consiglio Letta vada all’estero a parlare di riforme, a dire che l’Italia ha rimesso a posto le finanze pubbliche con le proprie forze, “senza aver ricevuto un solo Euro di aiuti dall’Europa”. Il primo ministro italiano trascura le garanzie messe sul tavolo da Francoforte e Bruxelles per non far sprofondare l’Italia nel circolo vizioso della sfiducia degli investitori e della speculazione dei mercati.

Il premio al rischio italiano è stato contenuto solo grazie alle garanzie del presidente BCE Mario Draghi, all’acquisto dei titoli di stato italiani e al generoso finanziamento delle banche europee. Allo stesso tempo l’Italia ha beneficiato della creazione dei fondi di salvataggio e dei meccanismi per limitare il rendimento dei titoli di stato.

Che l’Italia abbia promesso alla BCE di fare le riforme necessarie e che ai partner europei abbia garantito il pareggio di bilancio, è già stato dimenticato. Nonostante la retorica del Presidente del consiglio, il suo governo in sette mesi non ha prodotto alcuna riforma significativa, al massimo un paio di correzioni microscopiche senza alcun effetto sulla crescita.

Mentre l’Italia si trova in recessione da più di due anni, cresce il desiderio di ricette keynesiane: rafforzare la congiuntura con maggiore spesa pubblica, svalutare, abbassare i tassi di interesse, stampare denaro. Non si discute però se queste ricette usate negli anni ’70 e ’80 possano funzionare ancora oggi.

Come panacea contro la crisi economica la grande maggioranza dei politici, dei sindacalisti e degli economisti italiani pensa unicamente ad una spesa pubblica aggiuntiva, preferibilmente sopra il limite europeo del 3% di deficit/PIL. Si ricorda volentieri l’ultima fase di crescita italiana in cui i politici hanno utilizzato i soldi pubblici come leva dello sviluppo economico. Si dimentica che i politici orientati alle clientele e corrotti in questo modo cercavano solo di legittimare la loro spesa eccessiva. Soprattutto la spesa pubblica irresponsabile dal 1980 al 1992 ha fatto crescere il rapporto deficit/PIL dal 60 al 120 %.

Con un debito pubblico al 134 % del PIL, come previsto dalla Commissione europea per il 2014, non ci sono più margini di manovra. È indispensabile capire se lo Stato, che anche quest’anno gestirà oltre il 51% del PIL, intende accrescere ulteriormente il suo ruolo nell’economia. Sull’Italia restano però grandi dubbi, data l’estrema inefficienza dell’organizzazione statale. Ogni Euro gestito dal settore privato, di conseguenza, porterebbe maggiori benefici alla crescita economica.

Quando gli italiani pensano al denaro in mani private, pensano soprattutto che i consumatori dovrebbero avere maggiori risorse, e ciò dovrebbe essere fatto con tagli fiscali da finanziare con l’indebitamento. In questo modo la congiuntura sarebbe rianimata da un aumento della domanda. Questa idea però nell’economia globale sembra obsoleta e inadeguata. Probabilmente negli anni in cui i mercati erano più chiusi e c’erano delle barriere all’importazione, era più facile fare qualcosa per la congiuntura interna. Ora invece gli effetti di un amuento dei consumi dipendono dal livello di competitività dell’offerta nazionale. Ma se gli italiani continuano a comprare sempre più auto e dispositivi tecnici stranieri oppure fanno viaggi all’estero, l’aumento dei consumi porterà con sé un aumento anche dell’import.

Anche per un altro degli strumenti tanto amati dagli italiani, la svalutazione della moneta, ci si è dimenticati di studiare gli effetti nell’attuale economia globale. Ciò non impedisce però agli economisti e ai politici italiani di lamentarsi in continuazione per il tasso di cambio dell’Euro troppo elevato e di sperare in rimedi semplici.

Ma la strada della svalutazione, tante volte utilizzata ai tempi della Lira, oggi sarebbe probabilmente un vicolo cieco: in passato con la discesa del tasso di cambio in un mercato ristretto composto da pochi paesi industrializzati, i prodotti italiani e le vacanze in Italia diventavano immediatamente più economici e i consumatori tedeschi, ad esempio, potevano comprarne di più. Ma oggi con una svalutazione dei prodotti italiani non sarebbe così semplice aumentare le vendite, perché in questo segmento di mercato a basso prezzo si affollano concorrenti provenienti da altri continenti.

Gli strumenti tradizionali non possono più aiutare gli italiani. Sarebbe molto meglio se il Governo si occupasse un po’ di più della competitività: soprattutto come fare per convincere i suoi imprenditori di successo ad investire nuovamente nel proprio paese e a creare posti di lavoro. E per fare questo il presidente del consiglio Letta dovrebbe finalmente usare la parola “riforme”.

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Marco Benedetto