
ROMA – “Sembra – scrive Giusy Franzese del Messaggero – uno di quegli incubi notturni che al mattino ti fanno svegliare stordito, impaurito, grondante di sudore: stai nuotando verso la riva, la vedi che è lì abbastanza a portata di bracciata quando arriva un’improvvisa ondata che ti riporta al largo; allora metti più vigore nelle bracciate e la riva è di nuovo poco lontana, ma ancora una volta il mare si alza e la corrente ti trascina indietro”.
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Passa una barca, pensi finalmente di essere salvo, ti sgoli sperando di essere raccolto come accade a altri nuotatori in difficoltà, ma il capitano non ti vede e ti lascia lì ad annaspare. A guardare le tabelle sull’andamento del debito pubblico italiano elaborate dalla Fondazione Edison su dati Eurostat, la sensazione è proprio quella dell’incubo notturno: il nuotatore è l’Italia, le bracciate sono gli avanzi primari di bilancio conseguiti negli ultimi 20 anni, le ondate che ci riportano al largo sono la crisi economica mondiale e le speculazioni che hanno fatto schizzare lo spread Btp/Bund. La barca che passa e non ti vede è la ripresa.
PRIMA DEL 2008
Dalle tabelle si evince chiaramente che l’Italia stava nuotando bene prima della crisi. Anno dopo anno le sue bracciate (avanzo primario, ovvero il saldo positivo tra spese e uscite al netto degli interessi) le facevano guadagnare metri anche rispetto ad altri bagnanti. In valore assoluto il nostro debito pubblico tra il 2008 e il 2011 andava meglio persino di quello della Germania. Berlino in quei tre anni passò da un debito pubblico di poco superiore a 1.660 miliardi di euro a 2.095 (+26%); Roma passò da 1.671 miliardi a 1.907 (+14%). Solo Olanda e Svezia (+13% e +6%) facevano meglio di noi. Nei tre anni successivi (2011-2013) il debito italiano, nonostante il rialzo dovuto allo schizzare dei tassi di interesse, a livello di valori monetari continua ad essere tra i più virtuosi (+9% contro il +11% di Francia, +13% del Regno Unito, + 30% della Spagna). La Germania ha chiuso il 2013 con un debito di 2.159 miliardi, sopra a quello italiano che è a 2.069 e che purtroppo è in gran parte “bloccato” dal pagamento degli interessi sui titoli di Stato.
Ma lo sappiamo, a essere determinante è il rapporto con il prodotto interno lordo. Il crollo del Pil – abbiamo perso 8,7 punti in percentuale, contro 1,7 dell’area Euro – ci ha riportato in mezzo al mare. Ed ecco che le classifiche si capovolgono. Dal secondo posto per variazioni del valore assoluto (+24% dall’inizio della crisi) schizziamo al settimo per variazioni in rapporto al Pil. Morale: possiamo fare tutti gli sforzi che vogliamo, ma se non saliamo sulla barca della ripresa non riusciremo mai a far scendere quel maledetto rapporto debito/Pil così come ci impongono il Trattato di Maastricht e il Fiscal compact. Se anche riuscissimo a realizzare avanzi primari del 5%, senza una crescita almeno del 3%, rischiamo di restare allo stesso livello. Le riforme strutturali – che gli ultimi governi hanno avviato e quello attuale sta accelerando – sono importantissime, ma per la ripartenza del Pil serve la spinta degli investimenti. E se questo per qualche anno significherà politiche di austerity più flessibili e ragionevoli, ne sarà valsa la pena.
