Il Corriere della Sera: “Prelievo sui Bot, primo scoglio”. L’autostima non basta più. Editoriale di Gian Antonio Stella:
«Anche a Dio piace sentir suonare le campane», ammiccò un secolo e mezzo fa il poeta e diplomatico Alphonse Marie Louis de Lamartine. Sono galeotti, però, i troppi elogi: prima o poi arriva sempre il momento in cui ti vengono ribaltati contro. E se Mario Monti ancora è ferito dalle ironie feroci sul tormentone della sua sobrietà (c’è chi si avventurò a scrivere che alla domanda sul nome del suo cane aveva risposto «no comment»), Matteo Renzi può scommettere che gli verranno rinfacciate scampanate varie, su tutte quella di essere «un magnifico incrocio tra Pico della Mirandola e Niccolò Machiavelli». Bum!
Il neo-capo del governo dovrebbe perciò render grazie agli sketch di Maurizio Crozza o a Max Paiella che a «Il ruggito del coniglio» si è inventato una canzonetta che ride della sua «fissa» del calendario: «Sì, sì, che bel calendario / nessuno ha mai avuto un programma più vario / ogni mese, ogni mese, quante sorprese!».
Il rischio più grosso che corre l’ex sindaco fiorentino, infatti, è quello di ripetere lo stesso errore di tanti suoi predecessori. Quello di pensare, partendo da un buon gruzzolo di consensi personali (sia pure non convalidati da un passaggio elettorale) e da una dose esuberante di autostima (che in politica fino a un certo punto può essere perfino una virtù: nessuno ti segue se non credi tu per primo in te stesso), di poter supplire anche a eventuali debolezze di questo o quel giocatore della squadra. Nella convinzione di saper tappare ora questo, ora quel buco. Non è stato così, in passato. Neppure quando erano in sella uomini che, allora, parevano dotati di non minore carisma. Da Fanfani a Craxi, da D’Alema a Berlusconi.
Anche se il governo Renzi dovesse aumentare il prelievo sulle rendite finanziarie (Bot compresi, secondo quanto prospettato ieri dal sottosegretario alla presidenza Delrio), non è da qui che verrà il grosso delle risorse per rilanciare l’occupazione e la crescita dell’economia. Con un eventuale allineamento della tassazione alla media europea (l’Italia, col 12,5% sui titoli di Stato e il 20% su azioni, obbligazioni, dividendi e depositi, si colloca 2-3 punti sotto) si potrebbe incassare infatti al massimo un miliardo, dicono gli esperti. E comunque anche un inasprimento dell’aliquota del 12,5% sui titoli di Stato colpirebbe solo una piccola parte di questi, quelli in mano alle famiglie, ovvero 174 miliardi su un totale di 1.740 miliardi in circolazione (dati Banca d’Italia). Il 90% dei Bot, Cct e altri titoli di Stato è infatti detenuto da banche, assicurazioni e società finanziarie, tutti soggetti per i quali i redditi da capitale finiscono nell’imponibile fiscale complessivo, e che quindi sono indifferenti alle variazioni dell’aliquota secca.
La manovra sulle rendite avrebbe soprattutto un valore simbolico: come ha spiegato Delrio, far pagare di più chi vive di rendita per abbassare il prelievo sul lavoro. «Niente nuove tasse — dicono a Palazzo Chigi — ma una rimodulazione fermo restando l’orizzonte del governo di una diminuzione della pressione fiscale complessiva». Questo proposito di Renzi dovrà però fare i conti con le valutazioni del neoministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, impegnato già ieri sera, a Palazzo Chigi, nella prima riunione di lavoro con il presidente del Consiglio. Padoan, da economista, ha sempre sostenuto la necessità di un riequilibrio del trattamento fiscale tra lavoro e rendita. Ma in veste di titolare del Tesoro dovrà fare i conti con la necessità di non spaventare i mercati ai quali ogni anno l’Italia chiede di sottoscrivere circa 400 miliardi di titoli di Stato per finanziare il proprio debito pubblico.
Resteremo «sorpresi», twitta Matteo Renzi. Buona fortuna, a lui e soprattutto a noi. Per stupire gli italiani, considerato il punto di partenza, basterebbe davvero poco. Che cosa c’è di più semplice al giorno d’oggi che far sparire montagne di scartoffie, imponendo alla Pubblica amministrazione l’obbligo di far viaggiare le pratiche da un ufficio all’altro solo con la posta elettronica certificata? È il primo punto del programma digitale del nuovo premier. Persino ovvio, se non fosse per un dettaglio. Cioè come garantire il rispetto di quell’obbligo. Ecco allora che Renzi tira fuori la carta segreta: il dirigente della struttura inadempiente si gioca il posto. Ma è più facile a dirsi che a farsi, a giudicare da come vanno di solito le cose, con le sanzioni che naufragano fra proteste sindacali, ricorsi al Tar, controricorsi al consiglio di Stato e immancabili reintegri.
Il presidente del Consiglio allora rilancia, con il progetto di costituire un’anagrafe pubblica digitale nella quale ogni cittadino avrebbe fin dalla nascita una propria identità altrettanto digitale. Fatto che potrebbe spalancare orizzonti virtuali sbalorditivi, come l’istituzione di un conto tributario individuale dove si concentrino tutte le posizioni di ogni singolo cittadino con il fisco nazionale e locale. Semplice come trasformare un borbottante e malsicuro aeroplanino da turismo nell’Enterprise di Star Trek.
Il punto di partenza, appunto. Correva l’anno 1990 quando il settimo governo di Giulio Andreotti stabiliva per legge che «le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati». Da allora, un diluvio incessante di leggi, leggine, decreti. Ma soprattutto parole, parole, parole. Nel 2001 Silvio Berlusconi porta al governo «Mister Innovazione». È l’ex capo dell’Ibm Lucio Stanca, il quale si affretta a dichiarare in una intervista a Repubblica che con l’informatica la pubblica amministrazione «risparmierà 15 mila miliardi» (di lire, naturalmente: l’euro non c’era ancora). Mentre il suo predecessore del centrosinistra, Franco Bassanini, lo punzecchia: «Volevo mandargli i documenti via e-mail, ma li ha preferiti in formato cartaceo…». Quindi l’annuncio del decalogo per rendere finalmente digitale la pubblica amministrazione (marzo 2002). E la costituzione di una impresa pubblica per la banda larga: Infratel, affidata a Sviluppo Italia (2004). «Favorirà la crescita», garantisce il ministro Maurizio Gasparri. Poi un decreto legislativo intitolato «codice dell’amministrazione digitale» (2005), giusto in singolare coincidenza temporale con l’avvio del disastroso progetto del sito internet Italia.it , protagonista di una figuraccia planetaria. E poi il decreto «Taglia carta» del 2008. E poi la legge del 2009 che impone la pubblicazione degli atti sui siti internet. E poi piani su piani per la banda larga. E poi l’agenda digitale. In un turbine di authority e agenzie pubbliche rapidissime solo nei cambi di nome: dall’Aipa al Cnipa, alla DigitPa, all’Agenzia digitale Agid. Con esperti che si avvicendano a esperti sempre più esperti. L’ultimo, Francesco Caio: il «digital champion» designato dall’ex premier Enrico Letta via Twitter. Che dopo qualche mese getta la spugna. Così adesso siamo a Renzi.
La prima pagina di Repubblica: “Cambieremo le tasse sui bot”.
La Stampa: “Bot, il primo fronte di Renzi”.
Berlusconi ora teme i rischi della traversata del deserto. Scrive Ugo Magri:
Quando iniziò la traversata del deserto, Mosè aveva già passato gli ottanta. Nel confronto, Berlusconi parte avvantaggiato perché di primavere alle spalle ne ha solo 77. Inoltre la Terra promessa delle elezioni dista tutt’al più 4 anni di cammino e non i 40 che ne impiegò il popolo eletto. Eppure, la prospettiva di trascorrere così tanto tempo ai margini genera angoscia nel giro berlusconiano. Molti tra i fedelissimi si domandano se raggiungeranno mai la meta. Si chiedono se nel 2018 il Cavaliere sarà ancora protagonista o invece le sentenze e il naturale declino dell’età ne avranno fiaccato la resistenza. Ma soprattutto nutrono un dubbio: che la carovana di Forza Italia possa affrontare 50 mesi all’opposizione senza smembrarsi strada facendo.
Il Giornale: “Si parte di tasse”. Editoriale di Francesco Forte:
Mentre il ministro dell’Economia Padoan non si è ancora insediato, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Delrio detta la linea di politica fiscale, annunciandoche non adotterà la patrimoniale straordinaria, main compenso- aumenterà la cedolare sulle rendite finanziarie, compreso il debito pubblico. Non si sa di quanto sarà l’aumento sulla rendita sui titoli di Stato, che sino qui ha fruito di una cedolare del 12,5% mentre le altre rendite del risparmio diffuso sono tassate con cedolare al 20%. Sembra che si pensi a una unica aliquota del 23% che, per i titoli pubblici, implica un aumento di 10,5 punti. Essendo l’aumento generale, colpirà anche il risparmio postale, tassato ora anche esso solo al 12,5%. Con questa misura di tassazione generale del piccolo risparmio finanziario, lo Stato potrà mettere insieme senza fatica 5-8 miliardi all’anno, per eliminare l’Irap sui costi del lavoro, senza tagliare le spese improduttive, operazione scomoda, che disturba molte lobby e centri di potere elettorali, come le migliaia di imprese comunali in perdita, che Delrio e Renzi, il duo tosco- emiliano, conoscono bene, essendo ex sindaci, fautori del municipalismo, come base del potere.
L’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro è un ottimo provvedimento, che serve al rilancio dell’economia. Ma questa tassa sulle rendite finanziarie, compreso il debito pubblico e il risparmio postale, i titoli più semplici e accessibili agli umili, che hanno qualche euro da metter via, raggranellato a fatica, e vogliono un buon rendimento, di natura certa, è una operazione sommamente iniqua, che reca con sé dei pericoli psicologici di non poca importanza.