MINSK – Dubovy Log, il villaggio radioattivo in cui si muore lentamente: questo il titolo di un reportage di Nicole Di Giulio e Antonella Spinelli per il Corriere della Sera da questo paese della Bielorussia al confine con l’Ucraina, il paese tutt’ora abitato che venne maggiormente contaminato dall’esplosione del rettore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl 30 anni fa, il 26 aprile del 1986.
Su Dubovy Log i venti portarono il 70 per cento delle polveri radioattive, che andarono a posarsi sui campi e nei boschi. Oggi, scrivono Di Giulio e Spinelli,
Dubovy Log non è una prigione, eppure per arrivare in questo villaggio è necessario oltrepassare una sbarra sorvegliata 24 ore su 24 dalla polizia. Una sbarra invalicabile per chi non ha un permesso speciale che deve essere rilasciato dalla consigliera del soviet. Una volta dentro, tutto è nebbia, fango e gelo. (…) Nei boschi intorno Dubovy Log è ufficialmente vietato cacciare, cogliere funghi, tagliare e bruciare la legna. Il pericolo per la salute umana è troppo alto. (…) Da trent’anni vivere qui significa avvelenarsi silenziosamente giorno dopo giorno. Di fronte c’è la fermata dell’autobus, che da qui passa solo due volte a settimana.
(…) Come uscito dal nulla, passa un trattore che trasporta balle di fieno. Attraversa il paese e, dietro a fatiscenti fabbriche sovietiche, si scorge la vita. Una vita inimmaginabile. Uomini e donne lavorano i campi, danno da mangiare alle mucche, ai cavalli. Uno, due, tre. Sono un centinaio di persone, sono i lavoratori della fattoria collettiva: il kolchoz. Un allevatore avanza con passo deciso, è arrabbiato. Non vuole che si facciano riprese. «All’estero fate vedere sempre il peggio del nostro Paese, invece ora vi porto nella parte più bella. Guardate qui!». L’uomo mostra orgoglioso l’interno della stalla più moderna. Tutte le vacche hanno un cartellino con un codice e mangiano tranquille il fieno. Peccato che quel fieno venga da Demjanki, un villaggio poco distante da Dubovy Log, ufficialmente chiuso e disabitato perché altamente contaminato.
(…) Sul ciglio della strada c’è un uomo con un cane. Apre la porta della sua piccola casa piena di bambole e cianfrusaglie, mette in tavola vino e crepes preparate con le uova delle sue galline. Si chiama Yuri ed è arrivato a Dubovy Log prima dell’incidente di Chernobyl. «Anche io ho fatto il liquidatore, ho lavorato per cercare di ripulire la centrale e adesso sono in pensione» racconta. «Mi ricordo che agli ufficiali che arrivavano a Chernobyl veniva data una bottiglia di vodka e una di cognac. Gli venivano somministrati questi alcolici a fine giornata per depurarsi dalle radiazioni». Yuri non ha paura di vivere qui: «Tanto – dice – è tutto contaminato in Bielorussia, in Russia e in Ucraina».
(…) Il problema è che Dubovy Log è stata abbandonata dalle autorità di Minsk. Non dipende da alcuna amministrazione, non è una frazione di un altro villaggio, non ha un sindaco. Niente poste, niente farmacia, niente negozio di alimentari. Non c’è nulla. E ai bambini è stato negato anche il diritto a un cibo sano. Un cibo pulito, decontaminato. «I bambini che consumano alimenti in cui sono presenti isotopi radioattivi come Cesio 137 e Stronzio 90 – spiega il medico bielorusso Yuri Bandazhevsky – sono esposti a malattie come tumori alle ossa, al cervello, problemi cardiovascolari, problemi alla tiroide, disfunzioni metaboliche e genetiche». Il dottor Bandazevsky ha fatto studi approfonditi sulle conseguenze del disastro di Chernobyl in Bielorussia e per questo è stato perseguitato e punito con sei anni di carcere duro e adesso vive in esilio a Kiev. Il pericolo però non è solo per chi vive a Dubovy Log perché i prodotti di questa terra non conoscono barriere. Vengono venduti oltre la sbarra che separa Dubovy Log e i suoi abitanti dal resto del mondo. Anche il latte, munto nel kolchoz, viene trasformato in yogurt e formaggi che vanno a ingrossare gli scaffali dei negozi di alimentari di Bielorussia e Ucraina. E c’è chi giura che i tanti prodotti di queste terre contaminate – come i funghi secchi – arrivino persino nei nostri supermercati.
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