
ROMA – “Non c’è niente da fare – scrive Gianluigi Paragone su Libero di oggi (26 ottobre) – sulle tasse non si vuole capire la differenza abissale che corre tra essere evasori e essere morosi”.
Ecco l’articolo di Paragone:
Per fortuna che qualche giudice sta cominciando a raddrizzare le cose e a ficcarlo nella testa del testardo Attilio Befera. A suon di sentenze. La notizia dell’imprenditore sollevato dall’accusa di essere un evasore l’ha ben commentata il direttore Belpietro. Perché questa svolta –parlo di svolta nel senso che ora si può cominciare a parlare di giurisprudenza – non evapori in poche ore, vorrei tornarci su onde sottolineare la gravità della situazione. In Italia ci sono imprenditori che, dopo aver tollerato un carico fiscale senza eguali e dopo aver speso altri soldi per soddisfare le follie burocratiche accessorie, proprio non ce la fanno. Non solo. Si ritrovano di fronte a un dannato bivio: o licenziare o soddisfare le fauci di uno Stato sempre più nemico dei suoi cittadini. Chiudere baracca e burattini oppure licenziare operai significa, per lo Stato, caricarsi una questione sociale non da poco. A questo dato oggettivo se ne può aggiungere anche uno meno oggettivo e più… personale, del quale comunque in questi anni di crisi c’è traccia evidente. Parlo dei casi in cui il senso di vergogna dell’imprenditore è sfociato in suicidio, in dramma. Nelle lettere di addio proprio la vergogna di dover lasciare a casa dipendenti che nei capannoni hanno un nome e un cognome (intendo dire che non sono una semplice matricola), una famiglia conosciuta, era una delle concause. Girando per aziende e raccontando storie di lavoro, tante volte ci siamo imbattuti in cumenda in bilico tra la scelta di pagare i lavora – tori e quella di pagare le tasse. Stiamo parlando di gente che mai si sarebbe sognata di far mancare all’erario quel che lo Stato impone e che per cause di forza maggiore non ha più liquidità. È questo il nodo principale che il governo in primis e Agenzia delle Entrate (col suo braccio operativo di riscossione Equitalia) avrebbero dovuto affrontare e poi sciogliere.
Il governo ha preferito non farlo per non fare saltare il banco. Solo il pressing mediatico sul mancato pagamento dei debiti ha obbligato la pubblica amministrazione a saldare il dovuto. In parte. Ma non ci sono solo questi problemi. Ce ne sono molti di più perché gli effetti della crisi sono come le bombe a grappolo. Mentre scrivo ho sulla scrivania la lettera di un’azienda di abbigliamento che si lamenta per il mancato pagamento della merce da parte di un importante cliente. Mi domanda: «Che dobbiamo fare? Lamentarci in tivù?». È solo uno dei tanti casi di cui veniamo a conoscenza. Ora, mi dite com’è possibile onorare tutti gli impegni? Suvvia, è impossibile allorquando manca liquidità. Non ci sono soldi e se lo Stato li pretende a prescindere non si possono inventare. Per questo motivo nelle aule di tri- bunale sta facendo breccia il buon senso: evadere il fisco significa volere scomparire, volere farla franca. Spesso nessuno vuole fare il furbo, si cerca solo una soluzione. Le proposte di dilazione talvolta non bastano. Io mi domando: perché l’analisi oggettiva dei fatti che viene valutata in sede di causa civile non viene parimenti fatta nelle sedi fiscali competenti? Perché oltre al danno della crisi ci dev’essere pure la beffa della vergogna? Ripeto, basterebbe la ragionevolezza. Alla quale andrebbe aggiunta una decisione politica: se lo Stato non “copre” di suo questi ammanchi erariali, distruggeremo molto presto il tessuto imprenditoriale italiano fatto di piccole aziende. Proprio sul caso della sentenza di cui si è parlato ieri in apertura di giornale, ho ascoltato in radio alcune voci che lamentavano un deficit di giustizia.
Il senso era il seguente: perché – commentavano – nei tribunali non si accelerano le cause contro coloro che non pagano i fornitori? Lo sappiamo che certe cause siprolungano oltremisura, ma ci sono imprenditori che pure a fronte di sentenze favorevoli non riscuotono nulla perché il fornitore nel frattempo è fallito. Insomma gira e rigira il tema resta lo stesso. Un’altra obiezione che spesso sento sollevare è: se le aziende non possono più stare sul mercato è giusto che scompaiano. Complimenti! Che modo di ragionare è? Un’azienda che produce ma non viene pagata non è cotta, è martoriata due volte. Che fare allora? Potremmo dibattere all’infinito se sia giusto che lo Stato infranga il patto del 3 per cento per dare ossigeno all’economia e ai consumi (io penso che il governo lo debba fare a costo di farsi cacciare dall’Europa. Sono certo che si arriverà a questo quando però ormai non ci sarà più nulla da salvare…). Di sicuro, non merita alcun dibattito la soluzione più battuta dai recenti governi e cioè aumentare la tassazione o di sostituire una tassa con un’altra. Se nelle aule di tribunale comincia a passare il rapporto diretto tra effetti della crisi e mancato pagamento delle tasse significa che qualcosa va rivisto. Anche perché non tutti possono poi “conciliare” pa – gando Equitalia. Ripeto, e con questo chiudo, un conto sono gli evasori un altro sono i morosi. I primi non si sono mai fatti vedere dal fisco o comunque nascondono enormi profitti. Un altro sono i secondi. La palla ora passa allo Stato: se vuole uccidere le imprese è sulla strada giusta.
