ROMA – Questa l’intervista del Fatto Quotidiano al Generale Fabio Mini, esperto di geopolitica e analisi strategica su territori di guerra, oltre ad aver comandato la missione italiana in Kosovo tra 2002 e 2003.
Come giudica quanto accaduto su diverse sponde del Mediterraneo? L’Isis fa sempre più paura, sbagliamo qualcosa in Europa?
Sì. Sbagliano i nostri leader, che dimostrano di essere vulnerabili cavalcando le paure e alimentandole.
Faccia un esempio.
Il presidente francese Hollande subito dichiara che si tratta di terrorismo. Un tempo non era così automatico, prima di dare in pasto alla stampa e all’opinione pubblica una tale affermazione si permetteva all’intelligence di svolgere il proprio lavoro. Si permetteva alle strutture preposte di attivare tutti i dispositivi. Pensateci, è sempre più così: si vedono immediatamente i morti ammazzati sul selciato, le teste mozzate e l’immancabile drappello nero dell’Isis. Ma non sempre è così chiaro che si tratti di al Qaeda o dell’Isis.
Che cosa significa?
L’attentato in Francia mi pare rispettare la logica della manutenzione della paura. Ogni tanto bisogna fare un tagliando. Eventi di matrice terroristica servono ad alimentare la paura. Anche un piccolo episodio può servire a gettare subito in crisi un intero sistema. Crea scompiglio e mette a repentaglio la credibilità della sicurezza.
In Italia il ministro Angelino Alfano ha subito dichiarato aumentato ai massimi livelli lo stato di allerta…
Esatto, anche questo. Che bisogno c’è di dirlo se non quello di aumentare le paure e creare scompiglio. Oltre che a dare buoni argomenti alle lobby di polizia per chiedere straordinari e mezzi in più. Non si agisce più nelle ombre, ma si fanno annunci in superficie, poi siamo ridotti ad arrestare a Fiumicino un pakistano che qui vendeva collane di falso argento. Insomma, cinque anni dopo ci siamo accorti che era coinvolto nella strage di Peshawar del 2009… mi pare tutto molto strano.
Però quella bandiera nera dell’Isis non può essere occultata.
Appunto, la bandiera nera fa aumentare l’importanza del gesto. Ma non siamo di fronte a un unico esercito. È un frachising, più ne mostri i simboli, più ne divulghi la propaganda, più si riporduce.
E colpisce indifferentemente in Francia come su una spiaggia tunisina.
In Tunisia c’è un enorme problema di democrazia interna. Anche qui viene usata la simbologia dell’Isis. Ma è più facile pensare a fazioni tunisine che non si sentono rappresentate nel nuovo scacchiere del potere. Tunisi deve guardarsi al proprio interno. Anche in Libia non è che sia arrivata l’Isis: le milizie prima di Gheddafi o di qualche altro capo tribù adesso magari alzano la bandiera nera. Ma il vero scontro in ambito islamico tra sunniti e sciiti lo si vede, ad esempio, dall’attacco alla moschea in Kwait. Anche se, pure qui, non si capisce bene: un’azione del genere fa comodo a sciiti e Iran o il Kwait stesso ha bisogno di qualche martire e nemici da abbattere?
Secondo lei l’Italia corre rischi seri?
No. La Francia, come la Tunisia, ha grandi problemi interni. Le sue periferie traboccano di odio, da Parigi a Marsiglia. La nostra comunità musulmana non è sostenitrice dei terroristi islamici. La Francia fa una politica di extraterritorialità il cui centro sono sempre stati Marocco, Tunisia e Algeria. Noi non abbiamo né interessi né modelli da imporre. Paradossalmente, meglio così.