Gianluigi Paragone, buon conoscitore del profondo Nord e dell’intimo della Lega, analizza, su Libero, il voto delle elezioni 2013 e parte da Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano,
“perché la considero una chiara chiave di lettura di un certo voto. «In Lombardia siamo andati meglio in città che nelle valli… Ci premiano le comunità che sono più avanti, che hanno un livello culturale più elevato…». Pensieri simili escono pure dalle riflessioni di diversi esponenti del centrosinistra i quali non hanno capito che ciò che era consentito al Pci, al Pds e ai Ds prima, non è consentito al Partito Democratico. […] A un partito che mira a governare l’Italia non è consentito in alcun modo di restare sordo alle esigenze del nord. Nel nord del Paese infatti c’è quel groviglio di imprese, piccole e medie, stritolato da questioni che neppure la Lega e neppure Berlusconi sono riusciti a risolvere. […] Bersani oggi, Rutelli Veltroni e Franceschini ieri, non hanno mai saputo ascoltare le voci delle aree fuori dalle grandi città; sono rimasti prigionieri di quell’idea che Albertini ha ammesso non capendo la gravità delle sue parole. Non basta parlare con due incontri mordi e fuggi, la comunità lombarda e veneta va vissuta, va fatta propria. Altrimenti si è visti come stranieri. Ed è esattamente ciò che accade nel centrosinistra italiano da vent’anni. Lo sa bene Massimo Cacciari battistrada di un’idea che nell’Ulivo e nel Pd non ha mai fatto breccia, anzi è stata sempre derisa e ostacolata. Matteo Renzi – del quale non sono affatto un fan perché lo vorrei misurare sui fatti – almeno ha capito che non si vince se si prescinde dal mondo dei capannoni. Sa che quel popolo va ascoltato e non educato. Il fallimento di Monti e del terzo polo è il fallimento di un’idea politica che prescinde dall’economia reale. La mancata vittoria di Bersani idem.
“Non si possono vincere le elezioni perché Formigoni è sotto inchiesta o perché Maroni è un leghista o ancora perché Ambrosoli è una brava persona. Ambrosoli è stato un candidato paracadutato dai alcuni salotti buoni, al pari di Pisapia, che aveva vinto per ampi demeriti della Moratti e perché il cuore radical chic ambrosiano batte più a sinistra che a destra. Ma la Lombardia non è circoscritta a Milano, anzi va ben oltre Milano”.
Mentre Roberto Maroni è
“un big della politica oltre che un nome popolare (il quale ha giocato tutte le proprie carte sul territorio senza il paracadute del parlamento; gesto apprezzato), […] “il centrosinistra sono vent’anni che brucia personaggi senza costruire nulla. La questione settentrionale è una questione che, soprattutto in tempo di crisi, è una questione di aziende, di partite Iva, di competitività a da armi pari. È una questione fiscale, bancaria. È una questione di lavoro, occupazione. È una questione di servizi accessori a un mondo che fa impresa con lo sguardo rivolto ai mercati esteri. In Lombardia e in Veneto si fanno dané e schei solo dopo essersi fatti i calli sulle mani, cominciando a lavorare presto”.
Ancora critica ad Albertini:
“La frase sul «livello culturale» inferiore racchiude un’idea elitaria che sta alla base del distacco che il Nord respira rispetto a Roma. Un’idea per cui le esigenze non sono mai una priorità. Non ci vogliono grandi analisti per capire cos’è successo nell’urna, bastava ascoltare ancor prima di parlare”.
Destra (Berlusconi più Lega) e Beppe Grillo
“hanno espresso parole chiare sul fisco, sullo strapotere delle banche, sulla estraneità dell’Eu ropa alleata degli imprenditori tedeschi a scapito di quelli italiani. Non è solo un discorso di messaggi elettorali ma di credibilità rispetto a soluzioni che in quei capannoni sono ossigeno”.