ROMA – “Che dire di un uomo che ha vissuto una vita senza mai conoscere i suoi genitori – scrive Marcello Veneziani sul Giornale – e un giorno di primavera, a sessant’anni ormai compiuti, ritrova la sua famiglia e tanti fratelli che vissero la sua stessa sorte di abbandonati?”
Non riuscirò a raccontarvi la storia di Bartolo come se fossi un cronista, perché io Bartolo lo conosco da ragazzo, è uno dei miei amici più cari e parlando di lui non riesco, e non voglio, nascondere quel legame. Avevo quindici anni e lui diciassette quando ci trovammo a fondare il Fronte della Gioventù nel nostro Paese. Bartolo- all’anagrafe Alfredo Soldani, per gli amici Martmé- lavorava in campagna con suo padre, io ero studente. Una sera, dopo aver attaccato i manifesti, ci raccontò che i suoi erano genitori adottivi, non aveva mai conosciuto il suo vero padre e la sua vera madre. Da adolescente, quando seppe la verità, Bartolo scappò di casa. Martmé è una specie di Indiana Jones. Ha cambiato i mestieri più vari, era contadino ma si definiva scultore della zolla, era bersagliere e amava e pativa la velocità in ogni campo, anche sessuale; da ragazzo andava in giro con una bomba a mano nel borsello, da usare in caso di emergenza difensiva. Dopo l’agricoltura diventò camionista di Tir, poi diventò skipper di mestiere, poi non so cos’altro e ora è tornato alla terra, ma continua a navigare. Credo che gli manchi solo di fare la guida alpina, ma prima o poi lo farà. Una volta in aeroporto fece suonare l’allarme, ma erano i suoi stivali con gli speroni ferrati. Metteva allegria, Martimeo, col suo vivere avventuroso e il suo frasario fiorito; con le prostitute usava un linguaggio rigoroso da ginecologo. Era un ribelle, non amava i preti, forse si sentiva abbandonato dal Padreterno e dalla Madonna. Ma credeva negli ideali, era un faticatore e non era, come da noi si dice, una capa frecata .
Si avvertiva in lui un’inquietudine, come se una ferita sanguinasse dentro di lui. Sognava patagonie perché in realtà aspirava a trovare la strada di casa. A volte, quando ti negano le cose più vicine, ti rifugi nella lontananza. Ogni tanto Bartolo indagava sul mistero delle sue origini, una volta legò alla sedia la nonna per farla parlare. Cercava di risalire da vaghe leggende e tracce allusive ai suoi genitori, ma senza frutto. Poi la vita lo distolse da quella ricerca. A vent’anni stava diventando padre e marito, ma perse la sua ragazza e il figlio che aveva in grembo. Si rifece più volte la vita, ebbe figli, e da quando smettemmo di frequentarci, periodicamente riaffiora in altre vesti e sembianze. L’ultima volta aveva un codino bianco.
Ma un giorno di marzo, una donna lo rintracciò su Facebook , che è diventato il casellario universale, poi gli telefonò e, dopo alcuni giri di parole, si presentò come sua sorella. E gli raccontò tutto. Era riuscita a ricostruire la storia della famiglia e a rintracciare gli altri fratelli. Suo padre, classe 1904, non volle mai riconoscere i suoi figli, ma sua madre accettò e continuò a sfornare altri figli. Ne ebbero tanti, si sono ritrovati in sei, ne hanno identificati altri due, già morti. Uno di loro, Edoardo, l’avevamo conosciuto insieme, Bartolo e io, e più volte incontrato, perché militava a Bari nel Fronte. Col senno di poi ci siamo detti che gli somigliava. Vi risparmio altri intrecci della storia, assai dolorosi. Si affollano i dubbi, magari furono concepiti apposta per coppie che non potevano avere figli. Quando mi ha telefonato, Bartolo mi ha detto stranamente che aveva scritto una poesia di due righe e io sono rimasto allibito per l’inedita vena. Un nuovo mestiere?Me l’ha letta al telefono. Diceva che quando smetti di sperare accadono straordinarie sorprese. E poi mi ha chiesto: secondo te cosa vuol dire? Ho subito capito che parlava della sua storia, che c’era stata una sconvolgente scoperta e riguardava la sua famiglia perduta e ritrovata. Mentre parlava gli era accanto Lucio, «mio fratello », mi ha detto con disinvoltura, un fratello conosciuto solo da poche ore, dopo sessant’anni. Lo so che queste storie poi diventano il pane diprogrammi strappalacrime, non avrei mai pensato di carrambare pure io, temo che si avventeranno su di loro per portarli in video. La storia, in effetti, val la pena di raccontarla e loro in fondo fanno il loro mestiere. Ma io vi confesso che, pur essendo ormai un po’ anaffettivo, ho sentito un brivido correre lungo la schiena mentre mi raccontava, mi sono commosso. Certo, le imprecazioni sui suoi genitori vengono spontanee e lui stesso non le nasconde. Loro sono morti ormai da svariati anni, come del resto i suoi genitori adottivi che non gli hanno mai fatto mancare l’affetto. Ma quando la sorte ti bussa in quel modo e ti butta giù dal letto delle abitudini e ti fa ripassare velocemente la vita a ritroso, tappa su tappa, dal presente al passato remoto, all’adolescenza e all’infanzia e ti fa rimettere in discussione quello che hai creduto, vissuto, pensato finora, il rancore si spegne e muta in qualcosa di strano. Qualcosa che ti sconvolge e ti fa rinascere alla tua stessa vita. C’è una sorte peggiore che avere un pessimo padre: non sapere chi sia, né lui né tua madre. E dunque ritrovarli, seppure in memoria, è sempre meglio che finire la vita senza saperlo. Erano come erano, ma restano tuo padre e tua madre.
E poi la tenerezza struggente dell’incontro con sua sorella, coi suoi fratelli, «tutte persone squisite», mi dice Bartolo usando ancora un linguaggio che si addice agli estranei. E la meraviglia di scoprire in persone sconosciute i tuoi consorti più intimi… È troppo tardi per odiare e non è mai troppo tardi per amare. La vita alle volte ti riserva vere sorprese pasquali. Mi sento fumatore passivo di felicità per aver raccontato la sua storia a voi e a lui, che è ancora incredulo e adesso vuole che gliela racconti io. A volte la vita ti restituisce d’un colpo, a sessant’anni, lo stupore di essere al mondo. Una Pasqua così, Martmé non se l’aspettava. Val la pena vivere già solo per questi miracolosi agguati della sorte.