Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “Beriastaino”

La prima pagina del Fatto Quotidiano di martedì 11 agosto

ROMA – “Siccome – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano – sono in vacanza e ho molto tempo libero, ho visto la lettera di Sergio Staino a Gianni Cuperlo sulla fu Unità, in cui il vignettista intima all’esponente della sinistra Pd di mettersi in riga sulla linea del “nostro segretario” e “nostro premier”, cioè di Matteo Renzi, secondo “la prassi a cui siamo stati abituati, da Gramsci a Togliatti, da Berlinguer a Reichlin a Macaluso”: il vecchio caro “centralismo democratico”, dove il leader decideva e gli altri obbedivano. E mi è venuta in mente la sera in cui conobbi Staino. Era il 2003 o il 2004, governava Berlusconi e, in mancanza di una vera opposizione di centrosinistra, l’unico contrasto al governo lo facevano i girotondi e alcuni giornalisti e satiristi”.

L’articolo di Marco Travaglio: Staino, già fondatore di Tango (primo inserto satirico dell’Unità a metà degli anni 80), poi vignettista di Cuore e del giornale del Pci-Pds-Ds, non l’avevo incontrato, anche se da un paio d’anni le nostre firme comparivano entrambe sull’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro. I professori fiorentini Paul Ginsborg e Pancho Pardi organizzarono una serata nella vecchia stazione Leopolda, non ancora simbolo del potere renziano (Matteo preparava la scalata alla Provincia di Firenze), con Sabina Guzzanti, Sergio Staino e il sottoscritto.

Sabina fece impazzire le migliaia di persone intervenute con la doppia imitazione di B. e D’Alema. In particolare quella del leader Ds che, ritto al timone della sua barca Ikarus, lo sguardo fisso sull’orizzonte, si interrogava pensoso: “Mi accusano di non fare nulla contro Berlusconi, ma è una calunnia, diciamo. Anche a me, a volte, capita di pensare che bisognerebbe fare qualcosa. Arrivo persino a dirmi: forse l’opposizione dovrebbe opporsi, diciamo. Ma poi guardo l’orologio, scopro che s’è fatto mezzogiorno, mi viene un certo languorino, mi dico che è ora di andare a pranzo e allora smetto di pensare quelle brutte cose, diciamo”. A fine serata, nel retropalco, Staino si avvicinò alla Guzzanti e, sottovoce ma non abbastanza, le diede un consiglio amichevole: “Sabina, non mi pare il caso di insistere con la parodia di Massimo, per giunta associato a Berlusconi. Non fa bene al partito e alla sinistra: in un momento così difficile, lascia perdere”. Sabina lo guardò con tanto di occhi: “Scusa, Sergio, ma che ci frega del partito, della sinistra e dell’ora grave? Noi facciamo satira e ce ne sbattiamo di tutto e tutti. O no?”. Il dialogo si chiuse così, col reciproco imbarazzo fra i due.

Staino, persona peraltro amabile, aveva smarrito il senso del suo mestiere, casomai l’avesse mai posseduto. Ecco perché fa ridere così di rado: perché non può esistere la satira embedded, a sovranità limitata, unidirezionale, col permesso de li superiori e il culetto al calduccio. Perciò non fui sorpreso nel 2006 quando Staino pubblicò sull’Unità due intere pagine contro di me: ero raffigurato sotto le spoglie di un corvaccio nero e menagramo, il “Beriatravaglio” che, sulla spalla del compagno Bobo, gli sussurrava all’orecchio sospetti orrendi quanto infondati sugli inciuci della sinistra con B. L’Unione aveva appena vinto le elezioni e, come prima mossa, approvato con FI un indulto extralarge (esteso ai reati tangentizi, fiscali, finanziari e ambientali) che salvava dagli arresti Previti e B. col pretesto delle carceri piene. A quell’obbrobrio s’opposero, oltre a me, uomini di sinistra come Scalfari, Flores, D’Ambrosio, Tabucchi e i parenti delle vittime Eternit. Ma Staino, anziché disegnare il beriadambrosio, il beriascalfari, il beriatabucchi e i beriamortidamianto, preferì associare il sottoscritto a Lavrentij Berija, feroce protagonista delle purghe e dei gulag staliniani. Perché – dichiarò – “Travaglio non è di sinistra” e col suo “giustizialismo” perverte “la nostra gente” raccontandole la verità (Staino non smentì una riga di quanto scrivevo sull’indulto). Quando Padellaro, imbarazzato, mi chiamò per preavvertirmi dell’attacco, gli dissi subito che le vignette non si commentano: si pubblicano e basta. Molti lettori protestarono, non per invocare censure, ma perché intristiti da quella “satira” di partito e di governo contro un giornalista che criticava il potere. Qualche tempo prima Cuperlo, allora dalemiano, aveva definito sull’Unità la mia presenza “una pessima notizia” (…).

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Gianluca Pace