ROMA – “Diciamo la nostra” è il titolo dell’editoriale a firma di Marco Travaglio sulle pagine del Fatto Quotidiano di mercoledì 7 gennaio.
“Avete notato che manca una settimana esatta dalla data presunta delle dimissioni di Giorgio Napolitano, e Giorgio Napolitano non ha ancora comunicato ufficialmente la data delle sue dimissioni? Tutti, a Palazzo, sanno che se ne andrà probabilmente il 14 gennaio, ultimo giorno del semestre italiano di presidenza Ue (a proposito: ce l’avevano presentato come un evento epocale e poi non se n’è accorto nessuno). Resta solo un piccolo dettaglio: avvertire noi cittadini. Che, com’è noto, siamo un po’ come i cornuti: sempre gli ultimi a sapere. Dunque, ammesso e non concesso che il monarca non ci ripensi, fra una settimana finirà anche l’ipocrisia dei politici che sinora hanno evitato – almeno pubblicamente, nello spettacolino che mettono in scena ogni giorno per noi – di nominare i suoi possibili successori. E inizieranno le danze.
Grande è la confusione sotto il cielo, per due motivi. Primo: nessuna delle tre forze politiche maggiori – Pd, 5Stelle e Forza Italia – è compatta e monolitica agli ordini del suo leader. Il Pd non lo era neppure due anni fa ai tempi di Bersani, infatti impallinò entrambi i suoi candidati, Marini e Prodi; e tantomeno lo è con Renzi. Il M5S ha perso per strada, fra espulsioni e dimissioni, 26 parlamentari, e anche fra quelli rimasti si segnalano una dozzina di malpancisti che potrebbero tradire le indicazioni del blog. FI è spaccata tra berlusconiani e fittiani. E anche il Centro del fu Monti è polverizzato in una miriade di micropartitini. Secondo: da un anno i parlamentari della maggioranza sono costretti a votare leggi per molti di loro invotabili, imposte da Renzi col triplo ricatto del decreto, della fiducia a scrutinio palese e della minaccia di elezioni anticipate (“i disobbedienti si cerchino pure un lavoro”). Le presidenziali col voto segreto saranno per loro uno sfogatoio, un “liberi tutti”, come alla campanella della ricreazione: il festival delle vendette e dei conti da saldare.
Mai come questa volta nessun candidato, ai blocchi di partenza, può vantare più di qualche decina di voti sicuri. E, per diventare presidente, su 1009 grandi elettori, ne occorrono 672 nelle prime tre votazioni e 505 dalla quarta. Abbiamo contato i nomi usciti sui giornali nell’ultimo mese, quasi tutti suggeriti a mezza bocca dai politici per bruciarli o per lanciarli o per tastare il terreno: una cinquantina. Anche gli identikit del presidente ideale variano a seconda del tasso di umidità: politico di partito, politico super partes, tecnico economista, tecnico giurista, tecnico boh, mai candidato al Quirinale, già candidato al Quirinale, giovane, anziano, di mezza età, femmina, maschio, mezzo e mezzo, cattolico, laico, così così, gradito a Napolitano, gradito a Renzi, gradito a B., gradito a tutti, e via delirando. Alla parola “cattolico”, la Pinotti s’è fatta intervistare dalla tv dei vescovi per dire che si iscrisse al Pci perché l’aveva letto nel Vangelo, e noti mangiapreti con sei mogli han cominciato a baciar pile, abbracciare sottane cardinalizie e statue di santi e madonne, baciare pantofole vescovili, ingaggiare tornei di rosari e pateravegloria, farsi vorticosamente il segno della croce, indossare sai, veli e stole, inghiottire ostie a favore di telecamera, rispolverare dalla soffitta le foto della cresima. Davanti a questo spettacolo inverecondo, molti lettori ci chiedono: perché non possiamo dire la nostra? Ottima idea (…)