ROMA – “Vent’anni fa – scrive Massimo Gramellini sulla Stampa- proprio in queste ore, Kurt Cobain finiva di scrivere la lettera che fu poi ritrovata tra i fiori, accanto al cadavere. Per chi non lo sapesse, Kurt Cobain è stato un musicista, forse l’ultimo per il quale si possa spendere la definizione abusata di genio”.
Ha inventato suoni che prima non esistevano. E qualunque anima raminga si imbatta nella sua chitarra o nella sua voce graffiata si troverà a pensare: eccomi a casa. Aveva ventisette anni, quando scrisse la lettera. Ventisette anni, una moglie e una figlia amatissime, eppure indirizzò la missiva a Boddah, l’amico immaginario che aveva riempito la sua infanzia solitaria di figlio di divorziati. Nel messaggio di congedo gli rivelò di non riuscire più a provare nessuna emozione. E di amare troppo il genere umano, tanto da sentirsi «fottutamente triste». Succede agli spiriti esageratamente sensibili che raggiungono vibrazioni d’amore così alte da risultare insostenibili.
Di questa lettera si cita sempre la penultima frase. Là dove Cobain, riprendendo il verso di una canzone di Neil Young, sostiene che è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. In realtà a spegnersi più o meno lentamente è solo il corpo (il suo era tormentato da un’ulcera). L’anima non si spegne né brucia. Ma mi guardo bene dall’entrare in polemica con un genio. Preferisco ricordarlo con le sue ultime e sottaciute parole: peace, love, Empathy – pace, amore, Empatia – l’ultima delle quali sottolineata e in maiuscolo. Vent’anni dopo non ne ho ancora trovate di migliori.