Scrive Chiara Paolin sul Fatto Quotidiano:
Succede in una scuola di Roma, classe prima media, quartiere borghese. La email finisce sul pc sempre acceso del salotto, nel cellulare preso in prestito a papà per giocare durante il tragitto in auto. In poche ore tutti sanno tutto. Una mamma è furibonda, esige di conoscere il nome del colpevole per estrometterlo dalle amicizie della figlia. Un’altra tenta di riderci su, e viene travolta dalle critiche, tutti sanno che tenere a bada i ragazzi è un’impresa. Il traffico di foto, video e messaggi fa esplodere la frenesia del vivere in gruppo, l’ormone della preadolescenza diventa aggressività ingestibile. Non si tratta più di conquistare un turno di parola, un’occasione per brillare o parare una figuraccia. La tecnologia, la rete dei genitori perpetuamente interconnessi, ti fa sentire al centro del mondo, osservato e giudicato: esagerare è il minimo. Le parolacce, gli insulti, sono lo scherzo quotidiano. Gli adulti, a casa, cercano di reagire spiegando, sanzionando. A scuola la vita è più dura, perchè l’istituzione non può fare l’occhiolino e risulta rigida, antiquata. “Dire stronzo al compagno di banco è come dire sciocchino – spiega Claudia, maestra da vent’anni alle elementari -. Una volta li mandavamo dalla preside per una parolaccia, ormai non si può più: tra i bambini di 8-9 anni gli insulti più grevi sono la normalità. ‘Fanculo, ci dicono”.
“Eh, l’altro giorno uno ha dato un morso troppo grande alla merendina dell’amichetto e si è sentito chiaramente un ‘ciccione di merda’ volare in mezzo al cortile – spiega la bidella -. Mi si è gelato il sangue. I bimbi hanno continuato a urlare e correre come niente”. Mimare il vomito sulla spalla del vicino o minacciare un “ti cago in faccia” è insegnamento tratto da cartoni edificanti come “A tutto reality”. Gestacci dell’ombrello e formule semplici tipo “dai, cazzo!” derivano invece dalle serie tv stile “I soliti idioti”, caroselli consumati prima di cena mentre i grandi cucinano (…)