
Piero Ostellino sul Giornale è molto critico con la sentenza della Corte Costituzionale, la quale ha confermato che il “contributo di solidarietà” sulle pensioni più alte non è una tassa illegittima. “Pensioni, così la Consulta scarica gli sprechi di Stato sugli italiani“, commenta Ostellino:
La Corte costituzionale conferma, con una sentenza, la decisione del governo Letta secondo la quale il “contributo di solidarietà” di tremila euro sulle pensioni più alte non è una tassa aggiuntiva e illegittima, bensì un “prelievo” tutto interno al circuito pensionistico allo scopo di tenerlo in equilibrio.
Così, la Corte costituzionale passa da garanzia per il cittadino contro eventuali abusi del potere politico a strumento per confermare il carattere arbitrario e discriminatorio dello stesso potere politico che sperpera i soldi dei cittadini e poi li tassa per riparare i danni compiuti. Nessuno ha rilevato la mostruosità della sentenza. Lo faccio io qui, dove c’è maggiore sensibilità per diritti soggettivi. Non pare neppure escluso che l’andazzo si riproponga per altri casi nei quali siano in gioco i diritti soggettivi del cittadino formulati dal contratto stipulato con lo Stato grazie al quale, a seguito di anni di contributi versati, gli è corrisposta una pensione adeguata, affinché dopo aver sperperato i propri guadagni non divenga un peso sociale per lo Stato.
L’Italia è una via di mezzo fra il dirigismo fascista e quello sovietico, maturata nel 1948 con la Costituzione detta la più bella del mondo, che è semplicemente una cattiva imitazione di quella sovietica. Vengono così al pettine, con i danni prodotti da una politica di sinistra falsamente sociale e anche le carenze della politica della destra. L’Italia rimane senza una identità statuale definita in senso liberale e un pasticciaccio di destra, truccato di sinistra.
Invece della riforma costituzionale che dovrà essere approvata fra un paio di mesi dagli italiani, Renzi avrebbe dovuto provvedere a riparare i danni compiuti nell’immediato secondo dopoguerra, quando ancora permaneva il mito dell’Urss. Si è persa così un’altra occasione di fare dell’Italia un Paese di cultura liberale inserito fra le democrazie liberali dell’Occidente. Anche il governo di Renzi si rivela un bluff statalista e dirigista quanto erano i governi che lo hanno preceduto e che lui avrebbe dovuto rottamare. Alla bisogna dovrebbero provvedere i media, ma sono anch’essi figli di quella stessa cultura dirigista e statalista che caratterizza il Paese. L’Italia ce la farà mai a diventare finalmente una vera democrazia liberale? Personalmente ne dubito.
A impedirlo è la cultura egemone e fino a quando non farà un bagno in quella democratico-liberale, non ne usciremo. Le premesse neppure si intravedono. Restiamo un Paese dalla cultura terzomondista, illiberale, ancorata come è alla convinzione che spetti allo Stato risolvere i problemi che la società civile non è capace di affrontare e di risolvere autonomamente. E viviamo in una parvenza di Stato di diritto in cui, come dimostra la sentenza della Corte costituzionale, a prevalere è l’incertezza piuttosto che la certezza del diritto.
15 mesi fa, il 17 maggio 2015, Piero Ostellino si era espresso sullo stesso tema con un commento dal titolo “Toccare i diritti acquisiti è smontare la democrazia“. Per Ostellino, “Le pensioni sono frutto di un contratto col cittadino che deve essere rispettato. La sentenza della Consulta è il primo passo”:
La diversità fra il trattamento pensionistico riservato ai cittadini comuni e il vitalizio di cui gode la classe politica è la fotografia della degenerazione della democrazia, già prevista dai liberali dell’Ottocento immediatamente dopo la Rivoluzione francese.
La previsione era stata che i rappresentanti avrebbero preso il posto del popolo che essi rappresentavano e i cui diritti avrebbero dovuto tutelare e la sovranità sarebbe passata dal popolo ai suoi rappresentanti, che l’avrebbero usata spesso a proprio esclusivo beneficio, riproponendo il modello di Antico regime appena dissolto.
Che la peculiarità della democrazia rappresentativa – che assegna, sì, al popolo la sovranità, ma ne delega l’esercizio ai suoi rappresentanti – abbia prodotto la distorsione citata è sotto gli occhi di tutti. La pensione, per chi, negli anni lavorativi, ha regolarmente versato i contributi, indipendentemente dall’entità che avrà la stessa pensione che sarà erogata, non è una forma di carità che lo Stato esercita a propria esclusiva discrezione e condizionata dalla situazione finanziaria della Pubblica amministrazione, ma un diritto maturato grazie a un contratto stipulato dal cittadino con lo Stato. È un diritto inalienabile che non dovrebbe essere soggetto ad altra condizione oltre a quelle del contratto stesso.
Le altalenanti condizioni in cui, da noi, versa la finanza pubblica hanno finito col riverberarsi sullo Stato sociale, il cui funzionamento è diventato una variabile dipendente dai conti pubblici.
Nelle condizioni di congiuntura economica e finanziaria favorevoli, lo Stato del benessere (welfare) funziona persino in modo eccessivo, sperperando spesso risorse che, altrimenti, potrebbero, e dovrebbero, essere utilizzate meglio se non fossero disperse secondo criteri eminentemente politici e elettoralistici.
Quando la congiuntura economica e finanziaria è negativa, a prevalere è la ragion di Stato, interpretata dalla classe politica secondo i propri interessi e i diritti dei cittadini diventano una variabile dipendente dalla congiuntura. In Italia, la prevalenza di una cultura collettivista e socialistica ha provocato un esercizio dello Stato sociale non secondo criteri di giustizia e di equità, bensì secondo una logica tipicamente socialistica di tipo sovietico in base alla quale a pagare le spese della cattiva congiuntura e della necessità di tener fede agli impegni presi dallo Stato sociale nei confronti dei suoi cittadini sono i cittadini ritenuti più abbienti.
È una forma di redistribuzione della ricchezza che avvantaggia politicamente chi detiene i cordoni della borsa e li apre o li chiude secondo criteri suoi propri per trarne vantaggio, di volta in volta, elettorale.
Il caso delle pensioni che sono erogate secondo le circostanze finanziarie e gli interessi della classe politica, è sintomatico della degenerazione democratica, e cioè del passaggio della sovranità dal popolo ai suoi rappresentanti, che finiscono con assumere le sembianze del monarca assoluto dalla cui volontà dipendevano le sorti dei cittadini.
Dopo la Rivoluzione francese – che aveva semplicemente sostituito la sovranità del monarca assoluto con quella del popolo e, quindi, dei suoi rappresentanti – erano nate le condizioni della degenerazione della democrazia grazie alla prevalenza accordata al principio socialistico di eguaglianza di fatto, più che di fronte alla legge, come prescrive lo Stato moderno di diritto, rispetto a quello liberale di libertà.
La decisione del governo Monti di non indicizzare le pensioni maggiori era già stata un’arbitraria violazione del contratto sulla base delle condizioni finanziarie della Pubblica amministrazione, che sono diventate in tal modo prioritarie rispetto ai diritti dei cittadini.
I governi Letta e Renzi l’hanno successivamente adottata e applicata, fingendo di ignorare che la pensione non è una forma di carità pubblica erogata dallo Stato o, meglio, dal governo, secondo criteri soggettivi, ma un diritto maturato in ossequio a un contratto stipulato fra i cittadini e lo Stato che non ammette deroghe.
La cancellazione dell’indicizzazione delle pensioni è ora stata condannata dalla Corte costituzionale, la cui sentenza dovrebbe essere applicata nei confronti di tutti i pensionati secondo i termini stessi del contratto, ovvero dopo un certo numero di anni lavorativi durante i quali il lavoratore e il suo datore di lavoro versano i contributi che daranno vita al trattamento pensionistico.
Bene ha fatto, dunque, la Corte costituzionale a ribadire che la discrezionalità nella indicizzazione delle pensioni da parte del governo è una inaccettabile violazione del principio pacta sunt servanda sul quale si fonda la legittimità dello Stato moderno e che l’indicizzazione va, perciò, ripristinata nei confronti di tutti, non solo delle pensioni minori come si propone di fare il governo in aperta applicazione di (falsi) criteri di equità e di giustizia sociale che si traducono in una palese forma di ineguaglianza di fronte alla legge fra i cittadini, cioè in violazione dello Stato moderno.
Con la sentenza che ordina di ripristinare l’indicizzazione di tutte le pensioni, non solo di quelle minori, la Corte ha individuato un primo passo verso il ripristino, da noi, della democrazia liberale rispetto al totalitarismo socialista di matrice sovietica che aveva fatto uscire l’Italia dal novero dei Paesi occidentali.