ROMA – Poste italiane va in borsa e il Fatto Quotidiano pubblica una analisi di Ugo Arrigo sui pro e i contro degli inizi della Ipo, dal punto di vista del sistema Italia e dal punto di vista dei risparmiatori. Interessante il confronto tra le strade seguite da diversi paesi europei per privatizzare i servizi e aprirli al mercato. Difficile e impervio il confronto fra quanto è accaduto e accade in Italia e negli altri paesi. Un esempio è proprio dato dalle Poste che in Italia non hanno mai funzionato. Anche cinquant’anni fa le lettere arrivavano tardi o non arrivavano mai. In Inghilterra non è solo nei romanzi di Sherlock Holmes che le poste facevano anche tre distribuzioni al giorno. Ancora negli anni ’70 la posta veniva distribuita al mattino e al pomeriggio. Nella stessa Italia le Poste hanno comportamenti diversi, Nell’ex Impero Asburgico, in Trentino Alto Adige, ancora oggi è possibile la distribuzione dei giornali via abbonamento postale, cosa oramai abbandonata da sempre nelle altre regioni. Fatta questa premessa seguiamo il ragionamento di Ugo Arrigo:
Lo Stato quota in Borsa il gruppo Poste Italiane offrendo poco meno del 40% delle azioni in cambio di un po’ meno di 4 miliardi di euro. Per essere più precisi, l’Offerta pubblica di vendita riguarda una quota del capitale, ora detenuto dal ministero dell’Economia, compresa tra un minimo del 34,7% e un massimo del 38,2%. Di essa il 70% è riservato a investitori istituzionali, il restante 30% ai risparmiatori. Il prezzo per azione sarà fissato, in funzione dell’andamento della domanda durante il periodo di sottoscrizione, in una forbice compresa tra 6 e 7,5 euro. Nell’ipotesi meno favorevole alla finanza pubblica, che non è tuttavia verosimile, lo Stato venderà 453 milioni di azioni a 6 euro, incassando 2,7 miliardi. Nell’ipotesi opposta venderà 498 milioni di azioni a 7,5 euro, incassando oltre 3,7 miliardi. Poiché il collocamento è realizzato principalmente per raccogliere risorse finanziarie private che rallentino la crescita del debito pubblico dobbiamo attenderci un esito molto prossimo all’ipotesi più favorevole per lo Stato. In quelle meno favorevoli il Tesoro avrebbe infatti preferito rinviare l’operazione. Ma quali sono i cambiamenti che dobbiamo attenderci per quanto riguarda i mercati dei servizi nei quali Poste Italiane opera? La quotazione è positiva o negativa per i cittadini? Il benessere collettivo sarà maggiore o minore? Per rispondere occorre ricordare due modelli di tutela dell’accesso dei cittadini a servizi e beni essenziali che si contrappongono: il primo consiste nella produzione e offerta realizzata da imprese pubbliche; il secondo nella produzione e offerta realizzata da imprese private in concorrenza, a cui si aggiunge la regolazione pubblica dei mercati, quando la concorrenza non è sufficiente. A parità di risultati dei due modelli si può anche scegliere in base a preferenze ideologiche, non altrettanto se uno dei due fallisce sistematicamente i suoi obiettivi. Cavour, a esempio, credeva nella possibilità di un intervento pubblico efficiente e volle le aziende autonome incardinate nei ministeri di riferimento. Coerentemente con quella scelta, le Poste rimasero direzione del relativo ministero dall’unità d’Italia sino al 1993, quando furono separate dal governo Ciampi perché spendevano 12 mila miliardi all’anno di vecchie lire ma ne incassavano solo 8 mila e dalla seconda metà degli anni 50 ad allora avevano accumulato oltre 50 mila miliardi di disavanzi. Come si passa da una riva all’altra del fiume, da un modello in cui lo Stato non riesce più a garantire qualità ed efficienza dei servizi pubblici ad uno nel quale tale compito è affidato a mercati di concorrenza e/o a mercati regolati? Gli esempi internazionali riusciti consigliano di farlo in diverse mosse: 1) lo Stato istituisce un arbitro indipendente del mercato, un’Autorità di regolazione, precludendosi la possibilità di “proteggere” la controllata pubblica; 2) liberalizza il mercato garantendo l’accesso su basi paritetiche ai nuovi operatori; 3) cede il controllo dell’azienda privatizzando; 4) esce del tutto dall’azionariato. Questo è il modello britannico-conservatore, introdotto negli anni 80 da Margaret Thatcher. Vi è però un modello che si è rivelato altrettanto efficace ed è quello svedese-socialdemocratico: esso si ferma ai primi due punti, senza privatizzazione: le imprese pubbliche restano ma la loro efficienza, che a differenza dell’Inghilterra preesisteva, è garantita dalla regolazione e dalla concorrenza. La privatizzazione non risulta pertanto indispensabile ma lo è l’effettiva liberalizzazione dei mercati (…).