ROMA – Dove sono finiti, se mai ci sono stati, i poteri forti in Italia? Se lo è chiesto Alberto Statera su Repubblica, con un pezzo dal titolo “L’insostenibile leggerezza dei vecchi poteri forti”. Da Confindustria a MedioBanca, dalle Generali a Banca Intesa-Sanpaolo… per finire con il patto di sindacato che controlla il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, un esempio plastico della debolezza dei poteri forti:
“MA DAVVERO sembro Forrest Gump?”. Si narra che Giorgio Squinzi ponga la domanda a più di un interlocutore da quando ha saputo del nomignolo che gli hanno affibbiato per la sua aria un po’ stralunata, che ricorda Tom Hanks nel famoso film. A parte la lodevole autoironia, il presidente della Confindustria ha a che fare con il declino dell’organizzazione degli industriali, che fa da contrappunto al generale smarrimento di quel poco di capitalismo italiano che c’è, di fronte alla baraonda della politica e alla crisi economica. Al punto che la teoria dei Poteri Forti, enunciata per la prima volta nel 1994 da Pinuccio Tatarella, vicepresidente del Consiglio nel primo governo Berlusconi, appare ormai una leggenda metropolitana.
Niente altro che uno slogan in una ressa invece di impotenti poteri orizzontali, grumi allo sbando, che come nell’apologo di Menenio Agrippa, preso talvolta ad esempio da Giuseppe De Rita, sono destinati a perire se tutti gli organi del corpo non collaborano tra loro. Nella peggiore crisi politica e sociale che l’Italia vive dal dopoguerra, Squinzi invoca non si sa quale “approccio evangelico”, la Confindustria latita, tace o farfuglia, incapace di posizioni forti e innovative, smarrita di fronte allo scioglimento di ogni contraltare politico. Un Big Bang che certifica un declino già cominciato da anni, con Emma Marcegaglia, tra posizioni ondivaghe e flirt politici improvvidi.
Ma anche ai piani alti del capitalismo finanziario, che ha sempre fatto senza la Confindustria, dove s’incrociano le partecipazioni, i patti e i contropatti segreti o semisegreti, i conflitti d’interesse di una gerontocrazia immarcescibile, cieca e sorda ai richiami di un mondo che è cambiato. Risuonano invece, ai bordi della cosiddetta Galassia, i boati dei tuoni di una tempesta in avvicinamento.
Una volta a dirimere tra le boisseries di via Filodrammatici gli interessi, le inettitudini, le viltà dei rari capitalisti italiani, che volevano controllare le aziende senza investirci un soldo, c’era Enrico Cuccia. Nella sua “stanza di compensazione” tutti dovevano passare. Ma il “salotto buono” – definizione dilagata per decenni a causa della carente fantasia giornalistica – dove si facevano i patti e si aggiustavano i cocci, non c’è più. C’è però l’eredità rissosa di quella lunga storia, fatta di un sistema finanziario intrecciato tra banche e imprese in partecipazioni e patti incestuosi.
Da Mediobanca stessa alla Fondiaria-Sai, la scottante eredità di Totò Ligresti e dei suoi cari, che viene da lontano, da quando Cuccia, che detestava la politica ma anelava alla privatizzazione della sua banca, fu convinto da Bettino Craxi a farsene carico; da Banca Intesa a Rcs, da Telecom a Unicredit e Pirelli, il capitalismo italico di relazione, quel grumo di interessi collusivi che il macigno della crisi sta colpendo senza pietà, o si rigenera con nuove regole e nuovi uomini o rischia di far perire quel che resta dell’economia nazionale. Come nella politica, o il sistema evolve e il baricentro del potere si rinnova, o l’appuntamento con la modernizzazione si perde insieme all’intero paese.
A Mediobanca e alle Generali, estromesso Cesare Geronzi, sedicente banchiere “di sistema”, alias aspirante Cuccia del millennio, qualche spiffero di ragionevolezza comincia a soffiare, con la volontà di ridurre pacchetti azionari storici e la percezione di come ormai i patti di sindacato siano perniciosi. Geronzi, che si è rimesso in corsa per una carica purchessia, ha detto nel suo “Confiteor” che i vertici di Mediobanca, Alberto Nagel e Renato Pagliaro, sono “inadeguati”, come alle Generali Mario Greco e Gabriele Galateri, quest’ultimo definito “un piumino”. È vero che l’alta finanza non è un mestiere per signorine, ma i giudizi acidi del vecchio e compromesso “Power banker” ditutti i regimi sono un buon viatico, espressi da lui possono suonare come un complimento.
L’altro grande vecchio Giovanni Bazoli, il quale giustamente non ha per niente apprezzato i parallelismi che Geronzi ha voluto fare con lui, sta per essere confermato presidente di Intesa San Paolo, sostenuto dall’altro banchiere non di primo pelo Giuseppe Guzzetti, classe 1934, e da Sergio Chiamparino, ex sindaco piddì di Torino, e adesso presidente della Compagnia San Paolo. Bazoli e Guzzetti, ma non solo loro, sono i protagonisti dello scontro generazionale che, come nei partiti politici, è aperto nelle banche e nell’alta finanza. È opportuno che un personaggio abile e stimato come Bazoli a ottantuno anni suonati assuma per altri tre anni la presidenza del primo gruppo bancario italiano? Non rischia di finire come Antoine Bernheim, che negli ultimi anni alla presidenza delle Generali era diventato sinonimo di immobilismo, mentre l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto si interessava agli affari dei suoi amici finanzieri veneti Andrea De Vido e Enrico Marchi?
«Sì – mi dice un banchiere di quelli che i banchieri-non-danno-interviste – c’è anche un fatto generazionale, spesso sono uomini dell’altro secolo che non parlano le lingue, non prendono gli aerei, insomma, diciamolo, sono provinciali». Uno che di interviste ne dà e che spesso lasciano il segno è l’industriale Diego Della Valle, azionista di Mediobanca, Generali e Rcs. Qualche giorno fa ha detto a Giovanni Pons su questo giornale che “l’obiettivo di Bazoli e dei suoi compari è quello di continuare a controllare un sistema di potere molto ramificato, autoreferenziale, di individui che non hanno fatto meno danni al Paese di quelli fatti dalla politica”. Ma, se vogliamo, il problema di Banca Intesa va ben al di là della presidenza. A parte i crediti a rischio, che Mediobanca vorrebbe scaricare insieme a quelli degli altri istituti con insufficiente copertura in una bad bank, all’interno di Intesa convivono – male – due anime: quella incarnata dal consigliere delegato Enrico Cucchiani e l’altra del direttore generale Gaetano Miccicché. I due non vanno d’accordo su niente, dall’esposizione dell’immobiliarista Luigi Zunino, detto prima del crac “il più furbo dei furbetti”, agli altri dossier caldi lasciati da Corrado Passera quando è entrato nel governo Monti, come l’Alitalia e la Mittel del finanziere Zaleski.
Ciò che spesso blocca il lavoro del consiglio. Come finirà nell’imminente rinnovo delle cariche? Figurarsi se le contrapposizioni nella Galassia calante finiscono qui. Marco Tronchetti versus Franco Bernabè per la vicenda dei dossier illegali, Unipol contro Ligresti per Fondiaria Sai e così via, fino al grande canyon di tutte le battaglie, che si chiama Rizzoli-Corriere della Sera, nell’azionariato del quale ci sono tutti i poteri deboli appena citati. Dopo gli investimenti sbagliati e la crisi della pubblicità e delle vendite della carta stampata, occorre la ristrutturazione del debito e un aumento di capitale tra i 400 e gli 800 milioni, ma i soci nicchiano, salvo Della Valle. Persino Giuseppe Rotelli, re delle cliniche, che su input di Berlusconi è diventato negli anni passati il primo azionista di Rcs, pare non ne possa più di accumulare perdite. Chi investirebbe a cuor leggero in un settore come l’editoria in piena crisi?
L’ultraottantenne Bazoli si presume quindi che abbia ancora molto da fare sul fronte del Corriere, che si narra gli sia stato affidato da Gianni Agnelli sul letto di morte. Si venderanno gli asset non strategici, ma non il palazzo di via Solferino, mentre l’idea dell’integrazione con La Stampa, non piace al presidente della Fiat John Elkann, che comunque sembra disposto alla ricapitalizzazione. “Rizzoli — incrudelisce intanto l’azionista Della Valle – è un buon esempio di come non devono essere gestite le aziende.” Parole insolite nel club dell’alta finanza. Ma non si vedono ancora in quei santuari polverosi dei poteri deboli un Matteo Renzi o un Beppe Grillo che vogliano davvero rivoltare il tavolo.