
ROMA – Priebke. “Seppellirlo, ma ricordando tutto”: Barbara Spinelli su Repubblica. Tutto sta a non dimenticare chi è stato, a seppellirlo nel silenzio, a fuggire le cerimonie vistose; ma seppellirlo si deve. È quanto si può dire su Erich Priebke, l’ufficiale delle SS che sotto gli ordini di Kappler, capo della Gestapo a Roma, gestì la feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine, in cui morirono 335 ebrei romani, ammonisce Barbara Spinelli in un editoriale su Repubblica. Seppellirlo si deve e non solo per pietà cristiana:
Seppellire il nemico – come salvare il naufrago, o soccorrere la vedova e l’orfano: l’imperativo nasce da una cultura plurimillenaria, che oltrepassa l’ordine giuridico. Non a caso Antigone dà a quest’imperativo il nome di «legge non scritta», impartita dagli Dèi prescindendo dalle leggi della pòlis. Rispettare il corpo non più padrone di sé: dai tempi di Sofocle, prima che apparisse Cristo, è norma inviolabile. Il corpo stesso è pura incandescenza: non inumato esala miasma, contagio. Ricordiamo che nòmos, legge, è in origine la porzione di terra distribuita e assegnata. Compresa la porzione della tua tomba.
Ma come difendersi e rispondere all’oltraggio della stessa esistenza di un Priebke, un refrattario a qualsiasi forma di pentimento, uno che ancora sul suo testamento chiama le camere a gas “cucine”? Barbara Spinelli invita a separare il grumo di sentimenti ed emozioni posti dal cadavere di chi “fu tuo assassino”: la parola Legge non placa, né risolve, forse non significa nemmeno giustizia, ma è preferibile a istinto ed orrore che non guidano l’uomo pensante. “Legge” più servibile delle “parole calde” come amore e pietà, inservibili a domare “la primordiale inclinazione naturale” alla giustizia.
Piuttosto, Barbara Spinelli è rimasta molto colpita dal decreto vaticano che ha interdetto qualsiasi forma di funerali, in chiese e cimiteri. Un eccesso di severità che, oltre a procurare insperate occasioni di ribalta per esempio ai lefevriani, oltre a mettere in pregiudizio la stessa predicazione evangelica (“è conforme agli atti di Gesù?”) rinvia ad un’altra clamorosa interdizione, quella nei confronti di Piergiorgio Welby, col risultato di confondere pericolosamente i presupposti di tale gesto:
Nel 2006, la stessa diocesi negò i funerali a Welby, reo di eutanasia e suicidio. Fu sorda alla domanda della moglie, credente e praticante. Il rifiuto dei funerali di Priebke è forse difendibile, ma se non s’accompagna a un ravvedimento su Welby tutto si confonde e pericola. In qualche modo i due dinieghi producono un grumo atroce, accomunano. La Chiesa non potrà uscirne se non con una conversione, separando Welby da Priebke. Che si faccia ammenda e la sua morte sia dopo sette anni onorata. Che siano sconfessate le parole di Ruini, allora vicario di Roma: la Chiesa poteva concedere il rito religioso, purché si potesse dire che erano mancati nel ribelle «piena avvertenza e deliberato consenso». Lo ha rammentato Adriano Prosperi domenica su Repubblica: «Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina». Il vicariato apparve a tanti, cattolici e non, «gelidamente crudele». Tanto più la scelta oggi, mischiata com’è col caso Welby.
