ROMA – Referendum sulle trivelle, “perché è meglio andare a votare: chi non vota rischia il carcere”: l’invito alla non astensione alla consultazione del 17 aprile non arriva da Blitz, ma da Michele Ainis, giurista e costituzionalista italiano, che in un editoriale sul Corriere della Sera ricorda cuna norma che condanna al carcere chi induce all’astensione (quello che hanno fatto, tra gli altri, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano).
La norma in questione, ricorda Ainis, è l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera, cui rinvia la legge che disciplina i referendum. Scrive il costituzionalista:
Norme eccessive, di cui faremmo meglio a sbarazzarci. Ma c’è anche un equivoco da cui dobbiamo liberarci: sul piano dell’etica costituzionale, se non anche sul piano del diritto, l’astensione ai referendum è lecita soltanto quando l’elettore giudichi il quesito inconsistente, irrilevante. Altrimenti è un sotterfugio.
Ainis definisce una “deriva ingannevole e sleale” la battaglia sul quorum che vede da un lato il governo e dall’altro i promotori del sì.
Dunque l’appello all’astensione è un espediente, se non proprio un trucco, come affermò Norberto Bobbio nel 1990. Un tempo, durante la gioventù della Repubblica, la sfida si giocava in campo aperto. Nel primo referendum della nostra storia – quello sul divorzio, nel 1974 — le truppe di Fanfani e di Pannella si contarono alle urne, non davanti alla tv; e infatti andò a votare l’87,7% degli elettori. Percentuali intorno all’80% segnarono altre consultazioni degli anni Settanta e Ottanta: il finanziamento ai partiti, l’aborto, l’ergastolo, la scala mobile. E in molteplici occasioni i referendum vennero respinti con un voto — libero, esplicito, diretto.
Dopo di che s’ingrossa la slavina. Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno invitato gli elettori a disertare le cabine elettorali, in questa o in quell’altra occasione. Questa strategia un risultato complessivo l’ha prodotto, depotenziando il referendum. Tanto che la riforma costituzionale corregge al ribasso il quorum (se il referendum è sostenuto da 800 mila firme), anche per ostacolare la reiterazione del giochino astensionista.
Ainis entra anche nel merito delle critiche alla presa di posizione del presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, che ha invitato i cittadini ad andare a votare, in quanto dovere civico. Scrive il giurista sul Corriere della Sera:
Ha detto: il voto è un dovere, esprime la pienezza della cittadinanza. E che altro avrebbe dovuto dire? Che il referendum è uno spreco di tempo, che l’elettore virtuoso coincide con il non elettore, che le sole urne democratiche sono le urne cinerarie? I guardiani della Costituzione non possono ignorare le sue norme più pregnanti: il voto è un «dovere civico», recita l’articolo 48.
Se tutto ciò non bastasse, ecco la stoccata finale: chi incita al non voto rischia il carcere:
I profeti dell’astensionismo, nel nostro ordinamento, rischiano perfino la galera, secondo l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera, cui rinvia la legge che disciplina i referendum. Norme eccessive, di cui faremmo meglio a sbarazzarci. Ma c’è anche un equivoco da cui dobbiamo liberarci: sul piano dell’etica costituzionale, se non anche sul piano del diritto, l’astensione ai referendum è lecita soltanto quando l’elettore giudichi il quesito inconsistente, irrilevante. Altrimenti è un sotterfugio.