ROMA – L’amaro sfogo del presidente. Il Corriere della Sera: ” Le riforme costituzionali e della legge elettorale sono vitali per la democrazia, così come le risposte alla crisi, altrimenti c’è il rischio di tensioni e scosse sociali: è lo sfogo del presidente Giorgio Napolitano che fa appello anche alle opposizioni.”
Riforme, ultimatum di Napolitano: valuterò se l’incarico è sostenibile. L’articolo a firma di Dino Martirano:
Il capo dello Stato ha letto con voce ferma fino alle ultime righe il suo discorso pre natalizio in cui non ha dato per scontata la sua permanenza al Quirinale. In dieci cartelle, Giorgio Napolitano ha descritto un Paese scosso dalle tensioni sociali (ma anche da chi strumentalizza il malessere diffuso) e ancora fermo in mezzo al guado a causa di una politica dedita più all’inazione che al varo delle riforme. Piuttosto, è il monito del Colle, «questioni ormai vitali per la funzionalità e il prestigio del nostro sistema democratico e per il successo di ogni disegno di rinnovato sviluppo economico, sociale e civile» avrebbero bisogno dell’apporto di tutti i partiti, di maggioranza e opposizione. Forza Italia e M5S compresi. E lo schema della «ricerca della più larga convergenza in Parlamento» vale per la legge elettorale capace di garantire l’alternanza e, soprattutto, per le riforme costituzionali: «Come quelle del superamento del bicameralismo paritario, dello snellimento del Parlamento, della semplificazione del processo legislativo, della revisione del Titolo V varato nel 2001».
Ma Giorgio Napolitano, nella cerimonia per gli auguri alle alte cariche dello Stato, ha rivolto un appello anche agli italiani, chiamandoli a uno scatto d’orgoglio nazionale: «Per nutrire e trasmettere fiducia sul futuro del Paese, l’anello che ancora manca è il passaggio a una mobilitazione collettiva, a una ripresa di vigore e operosità, indispensabile oggi a risalire la china». Dunque, è importante che l’Italia «continui a essere governata innanzitutto nel così impegnativo 2014»: «l’Europa ci guarda ed è diffusa tra gli italiani la domanda di risposte ai loro scottanti problemi piuttosto che l’aspettativa di nuove elezioni anticipate dall’esito più che dubbio». Ma, ha avvertito Napolitano, «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata». Come del resto «le sorti del governo poggiano soltanto sulle sue forze, sono legate solo al rapporto di fiducia con la sua maggioranza».
Il presidente è stato severo con i partiti incapaci fin qui di darsi una nuova legge elettorale: «Sono costretto a ripeterlo ma si è imperdonabilmente pestata acqua nel mortaio». L’inazione del Parlamento è andata avanti anche alla vigilia dell’annunciata sentenza della Consulta che, ha sottolineato il presidente, non ha potuto che comportarsi di conseguenza dopo il monito già lanciato nel 2008 sul premio di maggioranza concesso senza soglia: ora «la Corte non ha espresso una preferenza per l’uno o l’altro sistema elettorale che ne potesse scaturire, ma ha lasciato libera e aperta dinanzi al Parlamento la scelta di una compiuta, nuova normativa elettorale».
Accuse e minacce di impeachment Berlusconi chiude la porta al Colle. L’articolo a firma di Paola Di Caro:
Una reazione durissima, da scontro istituzionale. Affidata a capigruppo, alti dirigenti del partito, allo stato maggiore di Forza Italia che hanno trasformato in note infuocate l’ira del Cavaliere, già esplosa più volte e ora tracimata: «Non ha più remore, passa sopra a tutto, e adesso non dovrei neppure più difendermi!», si è sfogato con i suoi.
E così, il capo dello Stato invita Forza Italia a percorrere ancora il cammino delle riforme? La risposta è un sostanziale «se lo scordi», perché questa legislatura ha esaurito il suo compito e non resta che votare al più presto. Ma sono i toni con i quali Napolitano si è rivolto a Berlusconi, intimandogli di smetterla di gridare al golpe e non concedendo alcuna apertura su una soluzione della sua personale via crucis giudiziaria, a far esplodere il partito che accusa il presidente di essere ormai «di parte», di aver contribuito ad espellere dal Senato il Cavaliere, di non voler capire che la vicenda «è politica, non giudiziaria»: «Se non è stato un colpo di Stato, cosa è stato?», protesta Paolo Romani.
L’uscita più dura è di Gregorio Fontana, non certo noto per i toni incendiari: «Io e i colleghi di Forza Italia presenti al Quirinale non ce ne siamo andati via durante il discorso del presidente Napolitano solo per rispetto del luogo in cui ci trovavamo», ma «a che titolo il presidente si sia appellato al senso di responsabilità altrui, quando lui stesso avrebbe avuto la possibilità di favorire un clima di dialogo e di pacificazione e s’è ben guardato dal farlo», non concedendo la grazia e, dopo le parole di ieri, dimostrando che «non esercita un ruolo di garanzia, non è un arbitro imparziale, e non è estraneo alla realizzazione del disegno politico-giudiziario e mediatico che ha portato alla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore».
Si capisce quanto torni di attualità il disegno confessato da Berlusconi ai suoi ancora pochi giorni fa: «Se Grillo lo farà, dobbiamo sostenere la procedura di impeachment contro Napolitano». Perché il clima negli ambienti azzurri è agitatissimo: «Minaccia che si dimetterà? E lo faccia! Lo dice ma non lo fa mai, per noi sarebbe un bene», si sfoga più d’uno fra i falchi. Daniela Santanchè dà dell’«omertoso» a Napolitano, Renato Brunetta è tranchant: «Sostenendo il governo, travalica il ruolo assegnatogli dalla Costituzione», e le sue parole con cui sollecita riforme appaiono «anche irrispettose della sentenza della Corte, le cui motivazioni converrebbe attendere, salvo Napolitano non le conosca già o peggio voglia condizionarne la stesura». Insomma, è la conclusione minacciosa «come scrisse il 29 novembre del 1991 l’onorevole Napolitano, chiedendo le dimissioni del presidente Cossiga: “Si è totalmente smarrito il senso della misura al Quirinale”. Purtroppo siamo nella condizione di ripetere le sue parole di allora».
Carceri, 3 mila uscite con il decreto. L’articolo a firma di Marco Galluzzo:
Si estende la possibilità di accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, sia ordinario che terapeutico. Si amplia a 75 giorni per ciascun semestre la riduzione della pena per buona condotta, aggiungendo uno «sconto» massimo di sei mesi rispetto alle misure già in vigore. Si ampliano le ipotesi di utilizzo del braccialetto elettronico: oggi si può dare solo a chi sta ai domiciliari. La novità è l’applicazione esterna: affidamento in prova, permessi, lavoro esterno.
Sono tre delle misure principali del decreto carceri che il governo, oltre ad un disegno di legge di semplificazione in materia di giustizia civile, approverà oggi. Lo ha chiesto a gran voce, e più volte, ancora ieri, il presidente della Repubblica. È un tema sul quale Letta ha riscosso per ben tre volte la fiducia del Parlamento e sul quale il governo è stato più volte ripreso dalle istituzioni europee.
Secondo le stime dovrebbero uscire dal carcere, nelle prossime settimane, sino a 3000 detenuti. Saliranno a 7000 se si includono coloro che sono già usciti in base a misure già emanate. Le norme incideranno sia sui flussi di ingresso in carcere che su quelli in uscita. Si rafforzano anche gli strumenti di tutela dei diritti delle persone detenute con la previsione di un nuovo procedimento giurisdizionale davanti al magistrato ed attraverso l’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute.
Non si tratta di un’amnistia o di un indulto: sarà tutto devoluto alla cognizione della magistratura di sorveglianza. Le nuove misure premiali non comporteranno alcun automatismo nell’applicazione dei benefici; sarà dunque escluso — rimarcano a Palazzo Chigi — «qualsiasi effetto di tipo clemenziale», mentre resterà l’automatismo fra inosservanza delle prescrizioni imposte con la concessione della misura premiale e la revoca del beneficio.
Saranno inoltre previsti benefici e sgravi fiscali in favore dei datori di lavoro che impieghino detenuti, nella consapevolezza che si tratta di «misure essenziali per garantire il percorso di rieducazione e di progressivo reinserimento sociale», si legge nella relazione che accompagna il decreto.
Un terzo degli italiani a rischio povertà al Sud salgono al 48%. L’articolo di Repubblica a firma di Rosaria Amato:
Non vivono sotto i ponti, e non chiedono l’elemosina. Spesso hanno una casa e anche un lavoro, eppure sono poveri. O meglio, per dirla con l’Istat, sono “severamente deprivati”, nel senso che non possono permettersi neanche una vacanza di una settimana (50,8%) o non possono riscaldare la propria casa (21,2%), permettersi un pasto proteico ogni due giorni (16,8%) o di far fronte a una spesa imprevista di 800 euro (42,5%). Oppure, ancora, sono in arretrato con il pagamento del mutuo o delle bollette (13,6%). È a rischio di povertà o esclusione sociale il 29,9% delle persone residenti in Italia, secondo l’indagine “Reddito e condizioni di vita dell’Istat”. Un numero che fa paura visto che supera di 5,1 punti percentuali la media europea, pari al 24,8%. Peggio di noi nella Ue solo Bulgaria (49,3%), Romania (41,7%), Lettonia (36,6%), Grecia (34,6%), Lituania (32,5%), Ungheria (32,4%) e Croazia (32,3%).
Chi vive in questa condizione in molti casi (10,3%) fa parte di una famiglia «caratterizzata dauna bassa intensità di lavoro»: lavora cioè meno di un quinto del tempo rispetto alla media. La povertà si concentra in alcune fasce della popolazione: chi vive al Sud, chi vive in famiglie numerose, o in famiglie con un solo genitore, chi ha un titolo di studio basso. Nel 2012 si sono inoltre aggravate le condizioni di chi ha un lavoro autonomo. Il reddito mediano delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari al 73% di quello delle famiglie residenti al Nord. E quasi la metà dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà ed esclusione (48%). Si aggrava moltissimo il rischio anche per le famiglie con tre o più figli: passa dal 39,8% del 2011 al 48,3%. Stessa percentuale per le famiglie monoreddito. Mentre le famiglie senza figli resistono meglio alla crisi: il rischio di povertà per loro è inferiore alla media di circa 8 punti percentuali, di 5 quello dideprivazione.
Blitz al Pirellone, scontri tra studenti e polizia. L’articolo di Repubblica a firma di Tiziana De Giorgio e Massimo Pisa:
I manganelli e l’ariete improvvisato, un carrello della spesa corazzato con un bancale da mercato ortofrutticolo e coperto da un telo blu. I caschi e le cariche con gli scudi di plastica a respingere la protesta, mentre volano uova ripiene di vernice e fumogeni rossi colorano la scena. Il Palazzo d’inverno ha la forma convessa del Pirellone di Giò Ponti, l’onda che vuole avvicinarlo coi fazzoletti sul viso ha la consistenza di un migliaio di ragazzi della Rete e dell’Unione degli studenti, una cinquantina di antagonisti e di un piccolo gruppo di anarchici. Citano, come loro costume, i classici sui loro scudi di polistirolo a forma di libro — da
Guerra e pace di Tolstoj alChe fare?di Lenin — e nei loro slogan invocano diritto allo studio e abolizione delle sovvenzioni alla scuola privata, di cui si discute nell’aula consiliare della Regione Lombardia.
Ma basta una scintilla perché si scateni lo scontro di piazza, un minuto con due momenti di contatto robusto, piccola battaglia di strada che spazza via in un attimo il pacioso accompagnamento della polizia ai forconi di piazzale Loreto. Qui la contestazione è organizzata, ortodossa nelle sue forme e nei suoi obiettivi e trova il muro dei celerini, che difendono con la forza il palazzo. Si fanno male in sei tra i manifestanti, in cinque tra gli agenti, tutte leggere contusioni medicate sul posto, mentre all’interno della sede della Regione la voce della protesta si leva comunque: quattro ragazzi e tre insegnanti — autorizzati da giorni ma in contatto con il corteo — irrompono a lavori in corso per far sentire i loro cori ed esporre lo striscione «Blocchiamo il Consiglio, diritto allo studio subito». Chiedono la cancellazione dei 30 milioni destinati a chi frequenta le private, già inseriti nel bilancio preventivo dalla maggioranza di centrodestra, mentre il sostegno al reddito aperto anche agli studenti di quelle statali viene ridotto drasticamente da 23 a 5 milioni di euro. Raccolgono la solidarietà immediata dei grillini, che abbandonano l’aula, mentre la seduta viene sospesa.
Lo scenario è un centro di Milano paralizzato dal traffico delle auto, per lo sciopero dei mezzi che serra le uscite del metrò per tutta la mattinata e la sospensione del pagamento di Area C. È una città esausta dopo la settimana dei blocchi stradali a singhiozzo tra piazzale Loreto e gli svincoli attorno alla Fiera di Rho-Pero, capace comunque di attraversare una settimana tradizionalmente critica — quella dei cortei di commemorazione per la strage di piazza Fontana e la morte di Pinelli — senza violenze di piazza. Dichiarati gli intenti alla partenza da largo Cairoli, con la vernice rossa gettata nella fontana sotto al Castello Sforzesco (il Comune la ripulirà in serata, denunciando 8 mila euro di danno), gli studenti risalgono Milano verso la Stazione Centrale, puntando dichiaratamente al Pirellone. Sono le 11 quando i leader del corteo e i responsabili dell’ordine pubblico stanno concertando un giro attorno al palazzodella Regione, ma gli animi nelle rispettive prime linee sono già caldi e partono contemporaneamente la primacarica e i primi oggetti. Dopo il secondo giro di manganelli il corteo prende il verso opposto, sciama verso Porta Venezia e si scioglie dopo un sit-in, non prima di aver urlato cori («Maroni e forconi, fuori dai c…») contro le istituzioni e l’altra protesta.