HOMS – L’ultimo convoglio di ribelli ha lasciato ieri Homs dopo due anni e mezzo di assedio mentre le agenzie battevano la notizia che ad Aleppo i ribelli del Fronte islamico avevano fatto saltare l’Hotel Carlton, dove erano acquartierate le milizie del regime, uccidendo una quindicina di soldati.
A Homs la città vecchia, la piazza dell’Orologio, il quartiere ribelle di Bab Amro, avvolto da colonne di fumo degli edifici incendiati dagli stessi combattenti sconfitti, sono adesso in mano ai lealisti: ma quello che era un tempo un centro industriale con un milione di abitanti appare adesso come un città fantasma adagiata sulla Valle dell’Oronte.
Scrive Alberto Negri sul Sole 24 ore:
Chi vince in Siria? Una domanda semplice con una risposta complessa. L’ex Siria, devastata e sconvolta da tre anni di guerra civile con 150mila morti e tre milioni di profughi, non è un solo campo di battaglia ma molteplici, da Nord a Sud, da Est a Ovest, che sconfinano in Iraq e nelle retrovie della guerriglia in Libano e Turchia. Volendo essere brutali si può affermare che i ribelli, senza un consistente aiuto esterno, non vinceranno mai e le conquiste di Bashar Assad resteranno sempre amare e precarie. Nel marzo 2012 Assad si era fatto riprendere dalle telecamere mentre camminava nelle strade di Bab Amro: un colpo mediatico per celebrare una vittoria di Pirro sulle macerie di una guerra infinita.
C’è però una differenza e neppure tanto sottile. Assad adesso ha una strategia, almeno una tattica militare, i ribelli, divisi tra gruppi islamici contrapposti, sembra di no. La resa di Homs è arrivata con una mediazione dell’ambasciatore iraniano a Damasco appoggiata dall’Onu e il regime ha concluso o sta raggiungendo altre intese di questo tipo intorno alla capitale e in altre città siriane. La tattica medioevale dell’assedio, sostenuta dalle milizie libanesi sciite di Hezbollah, in apparenza sta funzionando: i comandanti ribelli arrivano ai negoziati per il cessate il fuoco con i generali di Damasco imbracciando i kalashnikov, smagriti dalle privazioni, le divise lacere, esausti, logorati. Suscitano rispetto persino nei loro nemici che per eliminarli non hanno certo risparmiato sui barili-bomba. Un’immagine penosa e struggente, decisamente contrastante con i rappresentanti dell’opposizione siriana che si accreditano nelle capitali occidentali e alle reception di scintillanti hotel sul Bosforo.
Per Bashar Assad, a meno di un mese dalle presidenziali che si prepara immancabilmente a rivincere, Homs non è soltanto una vittoria simbolica ma di importanza strategica: ora il regime può controllare un tratto importante dei collegamenti verso Nord e di quelli a Ovest, in direzione dei porti di Latakia e Tartous, roccaforti alauite sulle coste del Mediterraneo. La svolta si è avuta nel giugno dall’anno scorso con la conquista di Al Qusayr, fortemente voluta dagli Hezbollah di Nasrallah, sulla rotta dei rifornimenti dei ribelli dal Libano. Villaggio dopo villaggio, la guerriglia è rimasta tagliata fuori dai collegamenti, strangolata dalla fame, e alla fine è caduta anche Homs.
Questa non è certo la fine della guerra. Come dimostra l’attacco devastante al Carlton, ai piedi della cittadella di Aleppo, effimera conquista dei soldati di Assad, dove mille anni fa regnava il saggio emiro Saif Al Islam, la Spada dell’Islam, con una corte di poeti, filosofi, artisti. E neppure si intravede una soluzione diplomatica alla quale tutti sembrano avere rinunciato. Eppure soltanto nell’agosto scorso qui Barack Obama voleva bombardare Assad e il suo arsenale chimico. Allora era stato Putin a mediare un accordo e a farsene garante, salvando così l’antico alleato. Ma adesso nel cuore dell’Europa orientale le cancellerie occidentali hanno altro cui pensare e la Siria in fiamme appare come un bagliore lontano.