
MILANO – La storia è questa. Nel 2012 il presidente pdl della Provincia di Milano, Guido Podestà, è stato rinviato a giudizio con 4 consiglieri con l’accusa di aver falsificato 926 firme per le liste elettorali 2010. Ieri (28 ottobre) i primi 150 testimoni su 723 totali dovevano confermare in tribunale la falsità delle loro firme. Centocinquanta persone in fila, solo per una testimonianza di 90 secondi.
Il racconto della giornata di Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera:
Alle 9,30 del mattino un fiume esonda dal terzo piano del tribunale e allaga a poco a poco anche i corridoi antistanti l’aula 3-bis: è la piccola folla di cittadini che hanno ricevuto tutti per quell’ora la convocazione a testimoniare nel processo al presidente pdl della Provincia di Milano, Guido Podestà e a quattro consiglieri provinciali milanesi imputati di «falso in atto pubblico» nelle 926 firme false disconosciute dai teorici sottoscrittori delle liste dei candidati pdl alle elezioni regionali e provinciali 2010. Grazie ad esse il partito di Berlusconi riuscì in extremis a presentare le liste che consentirono a Formigoni di raccogliere 2,7 milioni di voti e battere il pd Penati: e Podestà, quale coordinatore regionale pdl, è imputato, sulla scorta delle dichiarazioni della viceresponsabile elettorale pdl lombarda ed ex assistente di Nicole Minetti, Clotilde Strada (che ha già patteggiato 18 mesi), di averle indicato come fare materialmente. Podestà ha sempre negato questa ricostruzione e assicurato che il processo dimostrerà la sua estraneità.
Il presupposto della causa penale, dunque, è intanto quello di accertare formalmente se le firme siano false. I primi a denunciarlo erano stati i radicali della lista Bonino-Pannella, Marco Cappato e Lorenzo Lipparini, in base a una perizia grafica che avevano commissionato a una loro esperta. Dopo un primo esposto al procuratore Edmondo Bruti Liberati, uno successivo era stato coltivato dal suo vice Alfredo Robledo che allo strumento della perizia aveva preferito uno più tranciante, mandando i carabinieri a raccogliere durante le indagini preliminari la risposta direttamente di ciascuna delle persone apparentemente firmatarie delle liste: 723 avevano disconosciuto le proprie firme, che in tutto erano diventate 935 perché alcune in calce sia alle liste per le regionali sia a quelle per le provinciali.
Ma ora davanti alla giudice monocratica Monica Amicone, il principio di oralità del dibattimento e di formazione della prova nel contraddittorio fra le parti fa sì che, una volta che l’avvocato Gaetano Pecorella ha chiesto la deposizione di tutti i testimoni sulla circostanza ovviamente rilevante per l’imputazione, per la giudice non c’è margine di discrezionalità né possibilità di ordinare solo qualche deposizione a campione, e tutti i 723 cittadini debbono essere richiamati a ripetere in tribunale ciò che in indagini avevano già chiarito alla procura ora rappresentata in aula da Robledo e dal giovane collega in tirocinio Davide Pretti. Se si procede 10 testi a udienza, ci vogliono 70 udienze per esaurirli, in pratica due anni; se si chiamano 150 testi a botta, si finisce prima ma si rischia la confusione di ieri.
«Per evitare di far venire 700 persone, noi all’inizio avevamo chiesto che si facesse una perizia, il pm ha dato parere contrario, quindi siamo costretti a pretendere i testimoni», è il punto di vista di Pecorella, indisponibile per definizione («non è che quello che va bene al pm debba andare bene per forza») ad accettare che nel processo siano semplicemente riversate le dichiarazioni già rese al pm dai 723 testi: «Intanto a me, per una certa strategia processuale, interessava anche chiedere dove avessero firmato. E poi non si sa mai cosa succede quando un teste è interrogato: un marito, ad esempio, al pm aveva detto di essere andato a firmare con la moglie, ma ieri la moglie ha detto di no, e ora il marito non si può risentire perché pare sia molto malato». Un dubbio su 723? «A parte che altri imputati hanno a loro carico solo una manciata di firme, ciascuna di esse è comunque rilevante per l’imputazione. Piuttosto — sostiene Pecorella —, si potrebbe convocare la gente a scaglioni invece che tutti alle 9,30».
