“Usa lanciano i missili”… Ma lui non si fidò e salvò il mondo

“Usa, arrivano i missili”… Ma lui non si fidò e salvò il mondo

MOSCA – Trentatrè anni fa, la notte del 26 settembre 1983, un uomo sconosciuto ai più prese una decisione che salvò il mondo. Nessuno però si è mai preso la briga di dargli una medaglia o ringraziarlo a dovere. Lui è Stanislav Petrov, tenente colonnello dell’esercito sovietico che salvò l’umanità dalla Terza Guerra Mondiale. Quella notte, alle 00.15, il satellite spia dei russi sull’attività missilistica americana, inviò un segnale di allarme: “Missili termonucleari americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione Sovietica fra 25/30 minuti”. Quando Petrov vide la spia rossa accendersi sul suo tabellone, sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare: trasmettere l’informazione alla linea di comando. Ma lui intuì che era un falso allarme e così evitò lo scoppio di un conflitto nucleare di proporzioni devastanti.

La sua storia, ormai caduta nel dimenticatoio, fu rivelata per la prima volta all’inizio degli anni Novanta. All’epoca con grande umiltà disse: “Che ho fatto? Niente di speciale, solamente il mio lavoro”. Stanislav Petrov non si fidò ciecamente di un computer, il cervellone informatico ultimo modello dell’Urss, nome in codice Krokus. Infallibile o quasi, secondo le alte sfere: ancora da rodare e da prendere con le pinze secondo l’analista Petrov che seppe interpretare i dati non da ottuso.

Fabrizio Dragosei per il Corriere della Sera è andato a cercarlo per raccontare ancora una volta di quella volta che il mondo arrivò sull’orlo di un’apocalisse nucleare:

Venticinque giorni prima, il 1° settembre, un caccia sovietico aveva abbattuto un jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss. Erano gli anni della gerontocrazia al comando, della paranoia e della profondissima crisi. Il gensek (segretario generale del partito) Jurij Andropov era permanentemente in ospedale. In quell’occasione a controllare i radar non c’era un «Petrov», ma un militare disciplinato e ottuso che riferì ai suoi superiori: un apparecchio, probabilmente un aereo spia degli Stati Uniti, aveva violato il territorio della madrepatria. I generali e i politici applicarono le regole. In pochi minuti il maggiore Gennadij Osipovich che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine di abbattere l’intruso. «Non dissi alla base che era un Boeing, perché nessuno me lo aveva chiesto», si è giustificato in seguito.

Petrov no. Petrov non era ottuso. I missili impiegano meno di mezz’ora per raggiungere la Russia dagli Usa. Alcuni minuti servono per controllare che tutti i parametri siano giusti. Poi la comunicazione telefonica a Mosca. L’informazione arriva ai vertici. Si sveglia il gensek e a quel punto bisogna decidere subito. Militari ed ex agenti del Kgb non sono abituati a mettere in discussione le procedure. La tensione era altissima, con Reagan che aveva bollato l’Urss come «impero del male» appena sei mesi prima e Andropov che si diceva convinto della volontà di aggressione americana. A un attacco si sarebbe risposto quasi certamente con una massiccia rappresaglia: decine di missili sovietici lanciati verso gli Stati Uniti. E Washington avrebbe certamente replicato con il lancio (questa volta vero) delle sue testate nucleari. Per il pianeta sarebbe stata la fine. Ma Petrov non era ottuso. Al suo posto di controllo a Serpukhov-15, vicino Mosca, arrivò il segnale sempre atteso e tanto temuto: «Si accese una luce rossa, segno che un missile era partito. Tutti si girarono verso di me, aspettando un ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto». Pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra. «Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa base», racconta. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del Paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi».

Petrov era sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto. «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione». Così comunicò che c’era stato un malfunzionamento del sistema. «I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica». In seguito si chiarì che il sistema era stato ingannato da riflessi di luce sulle nuvole. Pensava di venir premiato, e invece gli arrivò un richiamo: se lui aveva ragione, qualcun altro aveva sbagliato a progettare il sistema. E tutto venne insabbiato. «Quando mi congedai, non mi concessero nemmeno la solita promozione a colonnello», racconta ancora. Petrov ha ricevuto vari riconoscimenti all’estero, ma nulla in patria. E ancora oggi, a 76 anni, fa la vita di sempre nel palazzo di Fryasino. Nessuno ricorda più l’uomo che ha salvato il mondo.

Published by
Daniela Lauria