La vita di Caterina Simonsen: “Avanti di respiro in respiro”

La vita di Caterina Simonsen: “Avanti di respiro in respiro”

PADOVA – “Breath by breath”, c’è un tatuaggio, una scritta in inglese sulla caviglia sinistra di Caterina Simonsen, “Respiro dopo respiro”. E’ la sua vita, quella di  Caterina, 25 anni, malata di deficit di Alfa 1 Antitripsina ma, soprattutto, simbolo, simbolo della ricerca, della scienza, della verità. Elena Tebano del Corriere della Sera ha raccolto la sua testimonianza, le sue parole:

Mi hanno detto che era incurabile: non sarei mai guarita — dice —. È stato un momento molto brutto, ma in qualche modo anche bello: finalmente potevo accettare la realtà, sapevo quello che mi aspettava e che dovevo attaccarmi alla vita. Respiro dopo respiro

Caterina è diventata un simbolo dopo il video pubblicato su Facebook in cui spiegava le ragioni della scienza, della ricerca, dei test sugli animali in medicina:

L’articolo di Elena Tebano

Caterina, una famiglia di imprenditori, una sorella più piccola di lei di tre anni, ha iniziato presto con i ricoveri. «All’inizio sembrava che avessi un’asma atipica e molto forte, che mi costringeva a mesi e mesi di ospedale», racconta. «Per fortuna a Padova c’è un reparto pediatrico molto bello, che non ti fa pesare la malattia. La mattina dopo la visita del medico andavamo a scuola con gli altri bambini. Poi dopo pranzo facevamo i compiti. Hai la flebo attaccata al braccio, ma per il resto è tutto un gioco: le stanze sono colorate, dormi con altri due bimbi. Ne ho visti tanti che piangevano quando dovevano andare via», dice con un sorriso nella voce. A seguirla c’era sempre sua mamma Fatima. A 15 anni ha rischiato seriamente di morire: è stato lo sguardo dei suoi genitori quando i medici l’hanno rianimata a tenerla attaccata alla vita.
«A 17 anni l’asma era diventata incontrollabile». Caterina si è ricoverata a Misurina, in provincia di Belluno, in un centro di eccellenza per la riabilitazione dei bambini asmatici. «Avevo due infezioni polmonari molto gravi, da cui non riuscivo a guarire e hanno capito che non poteva essere solo asma». Ci sono voluti altri ricoveri, a Padova tra gli adulti, e poi a Bologna, per capire che i suoi problemi derivavano dall’assenza di una proteina. A Pavia infine la diagnosi: il deficit di Alfa 1 Antitripsina, una patologia genetica rarissima legata al cromosoma 14, di cui entrambi i suoi genitori (lo hanno scoperto dopo) erano portatori sani. Negli anni successivi le hanno trovato altre tre malattie rare, tra cui una immunodeficienza che capita in un caso su centomila. Caterina non si è data per vinta. Si è iscritta all’università: i primi due anni ha frequentato potandosi dietro la bombola d’ossigeno. L’hanno fermata le polmoniti, che prende sei, sette volte l’anno. E allora si è messa a studiare da casa. I suoi amici sono i compagni di università e poi quelli conosciuti su Internet. Tra i più cari c’è Julia, incontrata via web quando era ricoverata. Anche lei è malata: di fibrosi cistica. «Ha sintomi simili ai miei. Anche lei sa cosa significa: anche se sembriamo normali non siamo mai normali. Vivere mi costa 130 battiti di cuore al minuto, contro i 70 normali». Ma contro tutto, Caterina va avanti. Non sono certo gli insulti via web a farle paura.

Ma quante sono le cavie usate nei laboratori italiani? E quali sono le regole?

Le cavie usate nei circa 600 laboratori italiani sono poco meno di un milione, per l’80% piccoli roditori, topi e ratti. Servono per la ricerca di base, fatta soprattutto nelle università, e poi per quella farmacologica, in cui i test sugli animali sono obbligatori. «È una questione di sicurezza: tutti i farmaci usati in Italia, prima che sull’uomo sono stati testati sugli animali», spiega Paolo de Girolamo, professore di Veterinaria a Napoli e presidente dell’Associazione italiana per le scienze degli animali da laboratorio (Aisal). Non solo le medicine che tengono in vita Caterina Simonsen, dunque, ma tutte quelle che si trovano in farmacia.

Le cavie sono essenziali anche nella ricerca di base delle università.

«Ma lì già si applicano procedure molto rigorose che ricalcano la legislazione Ue», spiega Gilberto Corbellini, storico della medicina al Dipartimento di Biotecnologie de La Sapienza, a Roma. «Ogni ricerca deve essere approvata dal comitato etico del dipartimento, ne faccio parte anch’io. Verifichiamo se gli animali sono davvero necessari, che ne siano impiegati il meno possibile, non soffrano e non siano stati usati in altri esperimenti. Se il protocollo prevede il loro sacrificio, non deve essere cruento». Quella che normalmente si chiama «vivisezione» è vietata: l’asportazione di tessuti avviene sempre sotto anestesia. «I limiti imposti dal nostro comitato etico sono equivalenti a quelli che l’ospedale chiede per gli esperimenti sugli uomini. L’unica differenza è che i topi si possono sacrificare», dice Corbellini. Proprio questo, però, è uno dei punti contestati dagli animalisti: «Noi siamo contrari all’uccisione di qualsiasi essere vivente, la nostra è un’obiezione etica di fondo», spiega Claudio Pomo di «Essere animali».
Le cose sono destinate ulteriormente a cambiare con la legge approvata ad agosto. Impone sempre l’anestesia, vieta gli xenotrapianti, i test su animali in studi su alcol e droghe e di allevare cani, gatti e primati destinati agli esperimenti. Doveva essere una traduzione della direttive Ue, per uniformare la legislazione italiana a quella degli altri Paesi. «Ma è molto più restrittiva di quella madre», dicono dall’Aisal. Secondo la comunità scientifica rischia di bloccare la ricerca. Di certo ci costerà una procedura d’infrazione (e una multa) per aver violato, con i troppi limiti, le norme Ue. 

Published by
Gianluca Pace