ROMA – “Il problema della Lega non era scegliere fra Umberto Bossi, ormai logoro, stralunato e anche un po’ infangato dalle note vicende, e Matteo Salvini, giovin signore milanese e brillante parlatore.”
Vittorio Feltri, sul Giornale, aggiunge: “Figuriamoci. Oddio, il rito delle primarie è di moda e anche i padani hanno deciso di celebrarlo, ma senza entusiasmo, consapevoli che la cerimonia non preludeva a una festa, ma a un funerale.”
Nell’ambiente leghista più che voci girano de profundis. I militanti maggiormente ottimisti e volonterosi sono impegnati a prolungare l’agonia; nessuno crede che si possa evitare il decesso. Ci vorrebbe un miracolo per salvare Alberto da Giussano, ma i santi si sono stancati di fare prodigi e non sembrano intenzionati a svegliarsi. La scelta di Salvini era scontata. L’uomo è vispo e oltretutto non aveva concorrenti alla sua altezza. Infatti Bossi, che gli contendeva la segreteria senza convinzione e per il puro piacere di partecipare alla competizione, da tempo è stato tagliato fuori dai giochi. Il suo accantonamento avvenne in coincidenza con la famosa o famigerata operazione chiamata «Netà fò ol poler» (pulire il pollaio), promossa e condotta da Roberto Maroni quando si ruppe il cerchio magico.
Superfluo ricordare le prodezze dei ladri di galline: piccoli furti, tutta roba da barbun che però ha distrutto la reputazione – una volta buonissima- di vari dirigenti in camicia verde. Il declino iniziò da lì, nel momento in cui fu scoperchiato il pentolone delle schifezzuole. Strana storia. Altri partiti ne hanno combinate di ogni colore e l’hanno passata liscia. Alla Lega non è stato perdonato nulla e l’hanno condannata a morte (…)
Salvini si è caricato sulle spalle un macigno. È forte, ma non è Maciste neanche lui. Se riuscirà nell’impresa titanica di riportare a casa i voti in fuga, gli dovranno erigere un monumento. Attendiamo moderatamente fiduciosi. E intanto salutiamo Bossi, cui bisogna concedere l’onore delle armi perché il saldo fra i suoi meriti e i suoi demeriti resta comunque positivo.
Diamo ora un’occhiata in casa del Pd, che ha introdotto il sistema delle primarie, non rendendosi conto che creano soltanto confusione. L’ultimo vincitore della gara fu Pier Luigi Bersani. Pareva il prologo di un trionfo e invece il seguito fu un flop. Il partito era persuaso di avere in tasca suffragi a sufficienza per costruire in Parlamento una maggioranza straripante. Col cavolo. Dalle urne uscì una miseria che costrinse il segretario e premier incaricato a un penoso negoziato col Movimento 5 stelle (impietosamente ripreso dalle telecamere), conclusosi in un nulla di fatto. Cosicché si arrivò alle larghe intese. Il resto è cronaca fresca.
I candidati che oggi si contendono il vertice del partito sono tre: Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati. Si scannano col sorriso sulle labbra. Inutilmente. Si sa chi prevarrà: il primo. Gli altri, che sino a un anno fa erano militi ignoti al grande pubblico, succhiando la ruota al sindaco di Firenze si sono fatti una fama. E di questo debbono accontentarsi. Adesso almeno per strada qualcuno li saluterà con deferenza. Non capita a tutti (…)
