Teatro di questa vicenda è la scuola media Boccone di Palermo. Qui due alunni della prima media, anni 11, avevano impedito a un loro compagno di classe di entrare nel gabinetto dei maschi “perché sei una femminuccia, un gay”. La questione era venuta fuori in classe, di fronte alle lacrime della vittima. La professoressa di Lettere, Giuseppa Valido, aveva deciso di affrontare la situazione in maniera energica: uno dei due bulletti in erba che avevano offeso il ragazzino aveva chiesto scusa, mentre l’altro non ne aveva voluto sapere, si sentiva immune e protetto. Era così scattata la punizione: l’alunno discolo era stato costretto a darsi del “deficiente” per cento volte sul quaderno e poi aveva dovuto portare il quaderno al papà perché lo firmasse e dimostrasse di averne preso consapevolezza.
Il padre del ragazzo, Vincenzo C., imprenditore nel settore delle demolizioni di auto, non solo ne “aveva preso consapevolezza”, ma aveva risposto per le rime dando della cogl… alla professoressa. Aveva fatto visitare il ragazzino, che aveva risentito dello “choc”, gli psicologi dell’azienda sanitaria avevano segnalato il fatto alla direzione della scuola e alla Procura. Uno “choc” chiamato educazione, complimenti agli psicologi che hanno derubricato l’educazione a trauma.
Il giudice Piergiorgio Morosini aveva assolto l’imputata. Nella motivazione della sentenza aveva sostenuto che la professoressa non fuggì dalle proprie responsabilità. Da stigmatizzare sarebbe stato piuttosto il comportamento del ragazzino: “Il non intervenire – aveva scritto il giudice – avrebbe finito per accreditare, tra i compagni di classe, l’idea che condotte vessatorie a danno dei più deboli sarebbero state comunque accettate”. Ma i giudici della Corte d’Appello non la pensano evidentemente allo stesso modo e hanno quindi deciso di condannare la “violenta” insegnante ad un anno di reclusione, nonostante l’accusa avesse richiesto per l’imputata una condanna a 14 giorni. Così impara ad educare.
Sorvoliamo sul fatto che l’alunno in questione oltre a studiare da bullo aveva scritto per 100 volte deficiente senza “i”, questa sì una colpa imputabile alla sua insegnante che evidentemente non era riuscita a fargli entrare in testa l’italiano, e sorvoliamo persino sulle sue bravate, in fondo a 11 si è ancora poco più che bambini e difficilmente si è in grado di rendersi conto di quello che è giusto sbagliato e ancor più difficilmente si ha la maturità per soffermarsi sulle proprie responsabilità e concentriamoci sul padre del bulletto. Si, il padre, è lui “la causa della cattiva educazione del figlio. Basta vedere la parolaccia con cui ha risposto all’insegnante” dicono l’avvocato della professoressa e il buon senso. Padre che, sentito da La Stampa, ha candidamente detto “io stesso non giustifico il comportamento del ragazzo – e ci mancherebbe aggiungiamo noi – ma c’è modo e modo di correggere un ragazzino di soli 11 anni”. Talmente non l’ha giustificato che a chiesto alla giustizia, giustizia che in questo caso efficacemente Massimo Gramellini su La Stampa chiama “giustizia deficiente”, di punire l”insegnante. Quello che al padre non è stato chiesto, purtroppo, è se secondo lui il modo giusto per correggere il ragazzino di soli 11 anni in questione è quello di portare in Tribunale la professoressa che l’ha costretto a scrivere 100 volte “sono un defic(i)ente”, e se questa punizione esemplare l’ha illuminato.
Siamo freschi reduci sui giornali da una polemica alquanto astratta e teorica sulla dura educazione “cinese” secondo cui le mamme di laggiù impongono alla prole ogni sacrificio e mai danno ragione e manforte ai “pupi e pupe” di casa. Sulla “educazione cinese” che forgerebbe automi di successo mentre la nostra educazione occidentale e mediterranea sarebbe più umana e foriera di libera scelta e arbitrio. La cronaca vera, quella di Palermo scavalca e risolve la questione: qui da noi, sentenza alla mano, è reato impartire qualunque educazione. Una generazione è già persa, andata: quella del papà, che l’altra, quella del figlio, che dio l’aiuti e abbia pietà.