A.A.A. Cedolare secca attendesi

Nella prima metà del 2010 molti la consideravano già cosa fatta: tanti oramai erano stati gli annunci “senza se e senza ma”. Nei mesi successivi solo i più attenti lettori delle pagine economiche si sono accorti che invece la cosiddetta “cedolare secca” sulle locazioni era stata rinviata “sine die” per mancanza di fondi. Da pochissimo però il nuovo sistema di tassazione dei redditi immobiliari è tornato in auge, riportato a galla dalla discussione sul decreto attuativo del fisco federalista: nei prossimi giorni la “Bicameralina” dovrebbe decidere se la cedolare vedrà effettivamente la luce, assieme a tutto il pacchetto della fiscalità municipale. Al momento favorevoli e contrari si fronteggiano ad armi pari e quindi ne potrebbe uscire un rinvio. L’ultima versione della proposta governativa-leghista prevede un’imposta del 19 per cento per i contratti di affitto a canone concordato e del 21 per quelli a canone libero). Il “Terzo polo” è contrario perché punta su un’aliquota inferiore (ma ha già ottenuto una riduzione e quindi potrebbe ripensarci), mentre il Pd in parte converge con Casini-Fini-Rutelli e in parte avversa questo meccanismo d’imposta.

Nel centrosinistra, e soprattutto nella sinistra-sinistra, insomma, non mancano i mal di pancia e le polemiche esplicite: rispetto all’imposizione attuale (nella quale le entrate da locazioni vanno a sommarsi agli altri redditi e sono tassate sulla base delle aliquote marginali previste dall’imposta progressiva sui redditi, a parte una detassazione del 15 per cento dell’affitto lordo) la cedolare secca, si sostiene, favorisce nettamente i titolari di guadagni più elevati. Un esempio estremo. Prendiamo due individui, il primo con un reddito annuo che non supera i 15 mila mila euro, praticamente una locazione è la sua fonte di entrata quasi esclusiva, mentre il secondo dispone di un reddito superiore ai 75 mila euro. Tutti e due affittano un appartamento a un canone mensile “libero” di mille euro. Entrambi pagheranno la stessa cifra di cedolare secca: 2.520 euro l’anno. In tal modo il primo con la nuova imposizione verrebbe a pagare all’incirca come prima (e in caso di un leggero aggravio può comunque evitarlo optando per il mantenimento del sistema attuale), mentre il secondo risparmierà quasi 2.000 euro l’anno (e il vantaggio cresce tanto più quanto più è elevato il canone).

Che alla vecchia sinistra classista al cubo questi esiti possano non piacere è cosa comprensibilissima. Assai meno lo è che le medesime critiche vengano sollevate dalla Confindustria o quantomeno dal suo quotidiano, “Il Sole 24 Ore”, che sta conducendo qualcosa di simile a una campagna stampa sull’argomento. Bastino tre esempi. Mercoledì 12 gennaio, articolo con sottotitolo abbastanza neutro, “Benefici evidenti per chi sta al di sopra dei 28 mila euro”, conclusione schierata: “Resta il dato politico: la differenza di trattamento fra redditi più bassi (penalizzati) e redditi più alti (premiati). Al governo e al ministro Calderoli il compito, dunque, di valutare se procedere a una correzione del testo per riequilibrare il sistema”. Venerdì 21 gennaio si continua a battere il chiodo. Stavolta occhiello e titolo recitano: “Primi dubbi sulla misura per gli affitti. La cedolare secca premia i redditi alti”. Martedì 26 gennaio, di nuovo, all’interno di un commento sulla “madre bipartisan di tutti i problemi”, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, Massimo Bordignon ribadisce: “La proposta di introdurre una cedolare secca sugli affitti al posto della loro tassazione in sede Irpef, di nuovo sostenuta in modo bipartisan, rischia di avere effetti distributivi perversi”.

C’è da chiedersi da quando in qua negli ambienti confindustriali ci si preoccupi per questo tipo di “effetti distributivi perversi”. Chissà, forse nei prossimi mesi, come coerenza vorrebbe, “Il Sole 24 Ore” proporrà che le imposte sulle cedole azionarie e su quelle delle obbligazioni e dei buoni del Tesoro (tassate al 12,5 per cento), così come quella sugli interessi dei depositi bancari (tassati al 27), anziché essere fisse varino in ragione dell’aliquota marginale sul reddito complessivo dei beneficiari. Ci permettiamo di dubitare che a viale dell’Astronomia prenderanno questa strada: la fuga di capitali verso altri lidi sarebbe immediata e il finanziamento delle imprese e dello Stato subirebbero nefaste conseguenze, tanto più in quanto ad abbandonare il campo di questi investimenti non più convenienti sarebbero i titolari di ricchezze e redditi più elevati, cioè, come dire, i migliori clienti per bond e buoni del Tesoro. Certo, non altrettanto semplice è spostarsi da un investimento immobiliare a uno finanziario, magari trasferendo i capitali all’estero. E allora, suggeriscono gli “industriali”, lo Stato approfitti di questa “vischiosità” e colpisca duro chi è “legato” al patrio suolo.

Questa iniquità di trattamento non è l’unica a svantaggio dei percettori di redditi da locazioni. Ancor più rilevante è quella conseguente al fatto che le cedole sui titoli producono interessi “netti” (imposta del 12,5 a parte): per riscuoterle non occorre sopportare spese di alcun genere, mentre invece un affitto è un reddito molto ma molto lordo, gravato da oneri di manutenzione straordinaria, Ici seconda casa, eventuali spese legali e quant’altro. Nel concreto, inoltre, sarà certamente abbastanza raro il caso di un soggetto con reddito assai basso in grado di mettere sul mercato delle locazioni una o più abitazioni libere. Ciò significa che il piagnisteo sull’iniquità della cedolare secca a favore dei redditi più alti non ha ragione d’essere (tanto più che per i più bassi non vi sarebbe alcuna modifica rispetto alla situazione attuale) perché sono proprio i detentori delle fasce alte di reddito a disporre di larghissima parte degli immobili da affittare. Inoltre i locatori mettono a disposizione del paese beni almeno altrettanto socialmente utili di quanto non facciano gli investitori in titoli. Aggiungiamo che una tassazione penalizzante sui redditi da locazione, come l’attuale che arriva a sfiorare il 40 per cento dell’affitto lordo, tende a rarefare l’offerta di case in affitto, un bene scarso.

Ci dovremmo fra l’altro chiedere se al di sotto del fenomeno tutto italiano dell’enorme diffusione della casa in proprietà (72 per cento delle abitazioni, a cui si debbono aggiungere quelle in usufrutto, comodato d’uso, ecc.) vi siano solo aspetti positivi, come la risparmiosità dei nostri connazionali e l’attaccamento alle loro radici, e non anche risvolti negativi. Fra questi ultimi, basti citare gli ostacoli spesso insormontabili a reperire abitazioni in locazione a prezzi ragionevoli; le difficoltà che una proprietà immobiliare molto diffusa e assai poco fungibile pone alla mobilità (in concorso con la forte tassazione sui passaggi di proprietà) e/o a investimenti imprenditoriali in altri settori. Di recente la commissione Ambiente della Camera, nel rapporto conclusivo di un’indagine conoscitiva, ha affermato che la “struttura rigida dei mercati immobiliari, sbilanciati verso la proprietà, determina serie difficoltà a dare risposta ai diversi fabbisogni della domanda abitativa in locazione, da quello delle giovani coppie a quelli di chi deve spostarsi per lavoro, da quelli degli studenti fuori sede, delle persone anziane e dei single a quelli degli immigrati regolari”. Come volevasi dimostrare.

Infine è sommamente sciocco far finta che l’attuale sistema d’imposizione fiscale sugli affitti non sia un potente stimolo all’evasione totale o parziale: è notorio che i “fitti in nero” sono assai comuni e comportano, oltre che iniquità fra chi paga le imposte e chi no, ingenti perdite per l’Erario. Sostiene sempre la commissione Ambiente che vi è ormai un’“inaccettabile quota di affitti ‘in nero’, che ormai supera le 500 mila abitazioni”. Anche per questo una riduzione dell’aliquota certamente non si tradurrebbe in una proporzionale contrazione delle entrate Secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato, le perdite di entrate Irpef dovute all’introduzione della nuova imposta sarebbero più che pienamente compensate dal gettito di quest’ultima. L’emersione di affitti in nero e le sanzioni previste per gli evasori comporterebbero nuove entrate per 600 milioni nel primo anno di applicazione della cedolare, un miliardo nel secondo e 1,4 miliardi nel terzo. Benché siano state sollevate alcune perplessità sull’effettiva dimensione dei maggiori introiti, che la Ragioneria avrebbe sovrastimato, è certo che la nuova cedolare favorirebbe sicuramente un’aumento dell’offerta di affitti regolari e una diminuzione dei canoni: e anche questi non sembrano risultati di poco conto in un paese, come ricorda la commissione Ambiente, dove la situazione delle locazioni “appare particolarmente difficile, se è vero che la quota di case in affitto in Italia (attualmente 4,4 milioni, il 18,8 per cento delle abitazioni totali) è nettamente inferiore rispetto agli altri paesi europei (Germania 57,3 per cento, Olanda 47,3, Francia 40,7) e, soprattutto che l’offerta di edilizia sociale in Italia è nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei (4,5 per cento del totale, undicesima in Europa)”.

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Warsamé Dini Casali