Quando, alla fine del 1979, arrivai da Bari a “Paese Sera”, Mario Lenzi era già andato a lavorare con Caracciolo. Ma nel giornale di via Due Macelli, allora diretto da Anjello Coppola, non si parlava che di lui. Mario Lenzi era più venerato del grande Arrigo Benedetti, più rispettato del leggendario Amerigo Terenzi. Io ascoltavo i racconti e la leggenda, provavo tanta invidia per chi come Sergio Baraldi, più ragazzo di me, lo aveva conosciuto a “L’Ora” di Palermo.
Nuovo dell’ambiente e timido ragazzo di provincia, raccoglievo con voracità i racconti di Ugo Ugolini o di Stefano Petrovich, con la speranza e la certezza che un uomo così avrei dovuto conoscerlo, prima o poi. Che non avrei potuto fare il giornalista senza un maestro così. Ma la mia esperienza a “Paese Sera” non durò a lungo. Dopo un solo anno mi chiamò a “Repubblica” Eugenio Scalfari. Mi dispiaceva lasciare quel giornale, “comunista” ma non troppo. La voce di Scalfari al telefono era stata un’emozione troppo invitante. In fondo, mi dicevo, anche Lenzi è andato a lavorare col Gruppo Caracciolo.
Che volevo di più dalla vita? In piazza Indipendenza, trovai un altro esercito di “lenziani”, da Franco Magagnini, a Bevilacqua, Forattini, Dell’Arti, Giorgio Signorini. Il mito era vivo anche nel villaggio di Scalfari, e per me fu quasi una consolazione. Il mio ideale “inseguimento” continuava. Perché tutti avevano conosciuto Lenzi e io no? Ma la vita è strana. A “Repubblica”, fra Roma e Milano, rimasi quasi dieci anni, fino all’inizio del 1989. E in quegli anni, per la prima volta, incontrai Lenzi durante un’occasione pubblica della Federzione Editori, insieme con il mio direttore Scalfari.
Com’era Mario? Aveva una sessantina d’anni, pelle chiarissima, occhi di un azzurro profondo, scostante e simpatico assieme, severo e ironico. Poche parole. Io lo guardavo con stupore, finalmente lo avevo conosciuto. Il Maestro di “Paese sera”, de “L’Ora” di Palermo, dei quotidiani locali di Caracciolo. All’inizio del 1989 Tito Cortese, chiamato da Walter Veltroni, a “rifondare” il giornale palermitano, l’Ora, ormai con un piede nella fossa, mi volle come vice-direttore.
Lasciare “Repubblica” in pieno sviluppo per andare in una “baracca sfasciata”, come mi disse Giorgio Bocca, era una follia: ma, come Bocca aggiunse, una bella follia. E follia fu, nel senso più drammatico della parola. “L’Ora” non aveva più un editore degno di questo nome; Tito Cortese era stato un efficace corrispondente tv da Bonn, ma non sapeva dove stava di casa la carta; io col mi caratterino mi misi subito nei guai, attirandomi le simpatie dei “lenziani”, che c’erano anche a “L’Ora”, ed entrando in rotta di collisione con direttore, con l’editore in posizione ambigua. Come si fa in questi casi, il consiglio di amministrazione mi nominò condirettore e mi diede l’incarico di studiare un quotidiano per la Sicilia tutta, un quotidiano del mattino con grandi ambizioni, almeno sulla carta. L’ordine, mi dissero, veniva da Roma, da Botteghe Oscure. Accettai per convinzione e per disperazione. E in testa mi brillò un pensierino: è la volta che vado da Lenzi. Lo chiamai e andai a via Po, la sede storica del Gruppo Espresso-Caracciolo. Gli raccontai la storia. Lui mi guardò e mi disse con sorriso gelido e bonariamente sadico: “Del Giudice, stai facendo le stesse cazzate che ho fatto io nella vita”. Poi mi spiegò come fare il progetto e mi diede appuntamento per cinque-sei settimane dopo.
Lavorai giorno e notte, più che il progetto mi interessava il giudizio di Mario Lenzi. Non so se per narcisismo o per autolesionismo, volevo quel giudizio. Tornai da lui con le mie carte. Mi salutò con una stretta di mano e mi mise a sedere come si fa con gli alunni impertinenti. Lesse, rilesse, frugò, andava avanti e indietro con le pagine. Poi alzò gli occhi e mi disse: “Del Giudice, se vuoi lo firmo insieme a te”. Io farfugliai un sì che quasi svenivo, come quella mattiva che mi aveva telefonato Scalfari. Il progetto era all’altezza, ma l’editore di Botteghe Oscure non aveva un centesimo. Lasciai mestamente “L’Ora” e me ne tornai a Milano, con armi, bagagli e famiglia.
Mario mi aveva seguito, ci sentivamo spesso e lui mi incoraggiava, mi chiedeva pazienza: nel Gruppo non si muoveva nulla, stante la “Guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti. Io campavo di lavoretti, mi chiamarono Renzo Foa e Peppino Caldarola a “L’Unità”, con un vero gesto umanitario. Ma il vecchio nucleo storico del giornale “comunista” non è che mi amasse poi tanto. Era il 1991, l’anno del congresso di Bettino Craxi a Bari. L’occasione per Ferdidando Pinto, uomo di Craxi e gestore del Petruzzelli, di imbastire un accordo fra craxiani e ambienti dalemiani per far nascere a Bari un quotidiano. Io che ormai ero considerato un sapiente dei progetti di giornali che non si sarebbero mai fatti, fui naturalmente incaricato. Ne parlai con Mario, mi misi al lavoro, col retropensiero che magari la faccenda sarebbe interessata col tempo al Gruppo Caracciolo. Nel lavoro mi aiutarono Adriano De Concini, amministratore del “Tirreno” e Amato Mattia, amministratore de “L’Unità”. Cotto e mangiato.
Lo portai a Mario Lenzi: mi guardò, mi sorrise e, per il da farsi, mi passò a Corrado Passera, all’epoca, subito dopo il passaggio della proprietà alla Cir, amministratore delegato del Gruppo Espresso. Passera mi ricevette con grande cortesia, mi fece partecipe del suo parere favorevole, poi concluse: “Bello davvero, ma a noi non interessa. Perché lei piuttosto non torna a lavorare con noi?” Bella domanda, mi dicevo fra me e me, me la dia lei la risposta. Ci lasciammo così. Pochi giorni dopo, era la fine di ottobre, il Petruzzelli bruciava, Pinto finiva nei guai (poi assolto), e nelle fiamme andava in cenere anche il mio bel progetto. Punto e daccapo, con Marta di 4 anni e Pietro di due mesi. Chiamai Mario, mi invitò a passare da lui. “C’è un posto di caporedattore in una città del Nord, più precisamente a Mantova, alla Gazzetta”. Da quando? “Da domani”. Grazie Foa, grazie compagni dell’Unità.
A Mantova ricominciò la mia vita. Andrai in avanscoperta con Gigi Carletti, nel giornale più antico d’Italia appena confluito nel Gruppo Espresso da Mondadori. Padre-padrone era il direttore Bulbarelli, un ex-tipografo protoleghista furbo e allergico alla nuova proprietà. Bulbarelli si difendeva con tutti i mezzi dall’intrusione del nuovo editore e cercava continui motivi di rottura. “Tu resisti e fatti picchiare – mi diceva Mario – ma resisti. Fra un po’ ti mando il nuovo direttore”.
Arrivò Sergio Baraldi, il mio vecchio invidiato compagno di banco di “Paese sera”. Mario ci aveva messi assieme perché eravamo amici ma anche diversi. Era nato il Parlamento di Mantova, io ero considerato “terrone e comunista”, al punto che anche Roberto Colaninno considerava “inopportuna” la mia presenza nella città dei Gonzaga. Colaninno era consigliere di amministrazione, Lenzi era direttore editoriale, con poteri di vita e di morte su tutti i giornalisti della Finegil. Ogni tanto il mio amico Lenzi mi faceva delle lavate di testa, davvero ingiustificate, anche con lettere dure. Poi mi telefonava: “Se ti cazzio io è per proteggerti, se lo fanno gli altri è per licenziarti”. Lezione di vita.
A Mantova divenni vice-direttore e condirettore, alla faccia di chi mi voleva male. Poi un giorno Mario mi telefonò per dirmi: “Vai a Pescara, al Centro”. Da quando? Mi informai. “Da ieri”. Lui colse il mio disappunto (neanche stavolta mi faceva direttore) e mi disse: “Ho capito, ma te lo devi conquistare”. Dopo sei mesi di Pescara, mi telefonarono a distanza di dieci minuti, lui e Marco Benedetto, per annunciarmi la novità. Mario: “Sei il direttore del Centro, non mi far fare cattiva figura”. Marco: “Sei il direttore del Centro, in tre anni lo salvi o lo chiudi”.
Ho sentito Mario, per l’ultima volta, due mesi fa. Avevamo appuntamento a Cortona, sapevo che non stava bene e volevo vederlo. La sera prima del giorno fissato, lo sento concitato al telefono: “Antonio, ti prego di scusarmi. Non venire domani, non sto bene, non esco di casa. Ti chiamo quando sto meglio, anche io voglio vederti”. In questi due mesi, ho avuto notizie da Caterina, sua figlia. L’ho sentito da lontano spegnersi lentamente. Fino alla telefonata di Caterina, due giorni fa. Non è tempo di retorica, che lui mi ha insegnato a disprezzare, come mi ha insegnato a disprezzare il servilismo. Di lui ho un ricordo marchiato a fuoco. Mi disse una volta il professor Vacca: “Tonino, sai che cosa mi ha detto Lenzi? Mi ha detto che ha tre figli più Antonio Del Giudice”. Sì, è vero, ho perso un padre.