Mario Lenzi, uno dei grandi del giornalismo e dell’editoria italiani della seconda metà del novecento, è morto nella casa di Cortona, in Toscana, dove si era ritirato. Avrebbe compiuto 84 anni a marzo 2011.
Lenzi è stato uno dei protagonisti del passaggio dell’ Espresso da casa editrice di un settimanale a gruppo multimediale, trasformando giornali locali nella voragine del fallimento e dell’occupazione, come il Tirreno di Livorno, in quotidiani diffusi e profittevoli.
Più e meglio di tutti Lenzi ha testimoniato quanto fosse giusta la convinzione Carlo Caracciolo che giornali locali potessero vivere e vivere bene. Questa fede accomunava Lenzi non solo a Caracciolo, ma anche a due altri personaggi importanti quanto ormai dimenticati nella storia dell’editoria italiana, Gianfranco Alessandrini, amministratore delegato dell’Espresso fino alla vendita alla Mondadori nel 1989, e Amedeo Massari, che fu anche la spalla gestionale di Eugenio Scalfari nella fondazione di Repubblica e poi l’amministratore del Giornale di Berlusconi.
Mario Lenzi era nato nel 1927 a Livorno e fu subito comunista e partigiano. Raccontava, con l’aria di volerle ridimensionare, la storia di quando a soli 17 anni catturò un sottomarino tedesco e altre imprese da partigiano. Si vantava di non essere stato battezzato e di essere ateo, ma è stato una delle persone più mosse da senso di giustizia e di carità che io abbia conosciuto, a dimostrare che non basta e non serve un battesimo a fare un buon cristiano. Era anche attratto dai sacri testi, da lui imparai che nella cruna dell’ago del Vangelo non deve passare un cammello ma una fune e che si è trattato di un millenario errore di traduzione. Trasmise questa passione alla amatissima figlia Caterina, linguista e traduttrice.
Umile nei comportamenti, riservato oltre ogni pudore, geniale nelle sue intuizioni, a 33 anni era diventato vice direttore di Paese Sera, il grande quotidiano “laico” del Pci per Roma, poi era passato a dirigere l’Ora di Palermo. Fu lì che Caracciolo lo scovò, alla fine degli anni ’70, quando rilevò dal fallimento il quotidiano Il Telegrafo, che era stato il giornale dei Ciano prima di passare a Attilio Monti e poi scivolare nel disastro.
Erano anni difficili per i giornali. L’eredità del fascismo si faceva sentire attraverso leggi come quella sul lavoro domenicale i relativi costi e sugli orari settimanali, che nei giornali sono stati di 36 ore per tutti, giornalisti, tipografi, impiegati dai tempi del duce (che era giornalista e aveva un occhio tenero per la categoria e un occhio acuto per gestire il consenso, vantaggi economici e bavaglio con l’Albo, padre dell’Ordine).
Gli anni del boom avevano generato un rivendicazionismo sindacale feroce, acuito dalla lotta politica fra le tre sigle dominanti, Cgil, Cisl e Uil, che si rincorrevano nel controllo delle anime operaie del settore, perché potere gestire la potenziale conflittualità di una tipografia era anche quello uno strumento di lotta politica. E così i costi avevano spinto i giornali nel baratro e il Telegrafo c’era sprofondato, anche perché Monti pensava che per controllare il mercato toscano bastasse la sola Nazione di Firenze, da lui pure posseduta.
Caracciolo voleva per il risorto Telegrafo, che sarebbe tornato al nome Tirreno assunto dopo la Liberazione, un giornalista livornese, per rinnovare le glorie del fondatore, il garibaldino Giuseppe Bandi, che era nato in provincia di Grosseto. Prese il volume con i nomi di tutti i giornalisti italiani e arrivato a metà dell’elenco dei professionisti (fatica non improba perché il numero era piccolo) scovò il nome di Lenzi. Chiese referenze ad Amerigo Terenzi, altro grande dell’editoria italiana, capo azienda di Paese Sera. Terenzi gli disse: “Lenzi è bravissimo, ma ha un carattere orribile”. Caracciolo aveva un debole per la gente non convenzionale, tanto che arrivò anche a amare Berlusconi, fino a quando quest’ultimo gli fece lo scherzetto dell’accordo sottobanco e illegittimo con le figlie e i nipoti di Arnoldo Mondadori (come racconta Nello Ajello nel suo libro intervista “Un editore fortunato”).
Il giudizio di Terenzi su Mario Lenzi fu per Caracciolo un incentivo, Lenzi, che si era visto respingere da Terenzi e dal partito il progetto di un grande giornale popolare nazionale sotto forma di catena di giornali locali, accettò la proposta e fu subito amore e successo.
Lenzi si insediò nell’appartamento di Ciano all’ultimo piano del bell’edificio razionalista che ancor oggi è sede del giornale, poche ore di sonno e poi redazione, incontri con chiunque avesse voce nel territorio, tipografia. Mise a punto un sistema editoriale autonomo, che ha resistito fino a poco fa nei giornali locali del Gruppo Espresso, con l’aiuto di un tecnico livornese, Pietracaprina, un genovese trapiantato, Paolo Montani, un vecchio giornalista e compagno di grande umanità e capacità professionale e di lavoro, Carlo Pucciarelli, un grafico nobile montenegrino, Petrovic e ancora altri pionieri di cui ricordo solo il nome di Pernazza. Con questa squadra, che farebbe arricciare il naso a qualsiasi consulente un po’ chic, negli anni successivi Lenzi si imbarcò poi nel salvataggio (giornali veneti) o nel lancio (Centro) di altre testate.
Nell’impresa del Tirreno Caracciolo affiancò a Lenzi Amedeo Massari, anche lui toscano di Cinignano (Grosseto), ma esattamente l’opposto di Lenzi sia fisicamente, sia culturalmente, sia ideologicamente. Di Massari fu l’idea di affidare la produzione dei giornali in crisi o da avviare a delle cooperative di tipografi. Il presupposto era che i tipografi padroni di se stessi sarebbero stati meno esosi dei colleghi a padrone. L’idea funzionò a Livorno e anche a Padova per una ventina d’anni, ma al cambio di generazione dei tipografi rivelò i suoi limiti e i cooperanti diventarono dipendenti.
Assieme, Lenzi e Massari fecero il miracolo a Livorno, poi Massari passò con Berlusconi, che ha sempre avuto per lui rispetto, stima e affetto. Massari si trovò bene con Indro Montanelli, direttore del Giornale di cui Massari diventò amministratore delegato, mentre non si era trovato bene nelle precedenti esperienze in cui l’ho conosciuto: con Piero Ottone al Secolo XIX di Genova, con Giovanni Giovannini nella holding editoriale fatta da Caracciolo con il cognato Gianni Agnelli, con Eugenio Scalfari. Massari aveva un gran carattere, troppo per i personaggi che ho nominato, che vivevano di quotidiani mentre per Berlusconi il Giornale era una virgola nel suo sistema di televisioni che stava nascendo. E naturalmente Massari non andò d’accordo neppure con Lenzi, che nacondeva, sotto la dolcezza dei modi, un carattere d’acciaio che gli occhi celesti tradivano.
Non li ho visti lavorare assieme, ma ricordo i racconti di Caracciolo, che si divertiva a vederli litigare e li aveva battezzati Bibì e Bibò. C’è da dire che nemmeno tra Lenzi e Scalfari c’è mai stata attrazione fatale: li dividevano le origini, la classe sociale, la cultura, la fede politica, le lealtà e le appartenenze, Scalfari era padrone, Lenzi era dipendente, al fondo c’era la contesa per l’amore del Principe e anche per la destinazione delle risorse da assegnare allo sviluppo delle testate. Scalfari, sbagliando, vedeva i giornali locali come dei concorrenti, non pensando, come sosteneva Luigi Bianchi, altro grande direttore del Tirreno e successore di Lenzi, che “se la moglie del fornaio di Monsummano per sbaglio gli porta a casa Repubblica invece del Tirreno, quello quando si sveglia e lo scopre la riempie di botte”. Lenzi riconosceva a Scalfari il primato, ma il suo sogno era che i quotidiani locali, tutti assieme, superassero in tiratura complessiva Repubblica.
L’uscita di Massari segnò una svolta importante nella cultura dell’Espresso, perché nessuno di quanti subentrarono nel tempo fu mai persona di carattere e visione comparabili, mentre i giornali continuarono a prosperare. Furono anni in un certo senso magici, quelli a cavallo tra i ’70 e gli ‘p80, perché tra Repubblica che stava avviandosi a essere il primo giornale d’Italia con Scalfari, l’Espresso che vinceva i referendum, con Livio Zanetti e il Tirreno, la Nuova Sardegna e il Mattino di Padova che risorgevano, dalle ceneri o dal nulla, Caracciolo dimostrava di essere il grande editore del dopoguerra.
Il successo dei giornali dimostrava anche che l’elemento cruciale perché un giornale si affermi è il direttore. Lenzi, Scalfari e Zanetti, presero delle redazioni improbabili di cassintegrati, ragazzi del movimento, transfughi della stampa comunista (in realtà grande scuola professionale in alternativa a quella del Corriere, cui a Torino attinse a piene mani un altro titano del nostro giornalismo, Giulio De Benedetti) e ne fecero delle redazioni che tennero e tengono posizioni di primato ancor oggi.
Sono entrato all’Espresso verso la fine di questa età dell’oro, quando ormai incombeva la vendita alla Mondadori. Ho lavorato per molti anni accanto a Lenzi e mi è stato fratello maggiore, amico e maestro. Era per e un mito da quando, nel 1965, scoprii il suo “Dizionario di giornalismo” e lo imparai quasi a memoria e fu la mia salvezza quando, in un quotidiano che ora non c’è più, il Cittadino di Genova, mi misero, forse con la speranza che inciampassi, dalla sera alla mattina a passare pagine e pagine di giornale. A quei tempi c’era il piombo, la produzione era complessa ma io avevo imparato tutto grazie a Lenzi: contare le battute degli articoli e dei titoli, definire gli ingombri in pagina di titoli, pezzi e foto. Fu la mia salvezza.
Quando lo incontrai, Lenzi era già andato oltre il piombo, era passato ai computer, alle nuove tecnologie di preparazione e aveva scommesso sull’intuizione che l’Italia sarebbe cresciuta e la crescita avrebbe assorbito gli esuberi indotti dalle ristrutturazioni. Ne era convinto un altro grande del giornalismo e dell’editoria, Giovanni Giovannini, che si giocò il posto di presidente della Editrice la Stampa per avere violato gli ordini di Cesare Romiti di non fare apertura alcuna, con il cappello di presidente degli editori italiani, in materia di orario di lavoro dei tipografi, a fronte degli esuberi per tecnologie. Era il contratto di lavoro del 1981, quello che portò, attraverso i prepensionamenti in massa dei poligrafici, alla salvezza e al rilancio dei giornali italiani. Ma Romiti voleva che Giovannini tenesse duro, per poter poi fare a sua volta concessioni in materia ai metalmeccanici senza che nulla fosse stato compromesso, in quegli anni di slogan del tipo lavorare meno lavorare tutti e il salario è una variabile indipendente.
Lenzi, senza aspettare il contratto, aveva già fatto tutto, nella sua Livorno, nel suo Tirreno. Segnò una svolta epocale e l’avvio di una stagione di successo che continua. Sostenne sempre, con ragione, che la scelta giornalisticamente giusta è anche la scelta giusta, a medio lungo termine, sul piano industriale.
Ma la tecnologia è come un manichino senz’anima, se un giornale non ha idee e le sue idee non trovano riscontro presso i lettori. Lenzi aveva elaborato, anni prima, la teoria dei tanti giornali locali di servizio, ciascuno per uno dei cento campanili che più alti svettano in Italia, con tante edizioni e sub edizioni, tenuti assieme dall’elemento politico unificante delle cronache nazionali comuni. Il Pci, però, come ricordato prima, dismise l’dea come impossibile. In Caracciolo trovò un editore disponibile e in Massari un profeta insuperabile, che moltiplicò le edizioni del Tirreno, ben oltre le province della Toscana costiera.
L’idea di Lenzi era tanto giusta che stravinse nel tempo ed è tutt’ora vincente, dopo i brevi detours imposti dalle ambizioni regionalistiche di direttori emergenti: la vendita delle copie e le ricerche di mercato confermarono che le regioni sono una espressione geografica, che, nella gran parte d’Italia, l’identità è data dalla città, massimo dalla provincia.
L’idea di Lenzi, a considerarla tutta, era poi che il Grande Fratello Mario avrebbe governato quell’intrico di direttori, capi redattori, capi servizio, comitati di redazione, con dolce ma inesorabile fermezza e, almeno con la prima generazione di direttori di quotidiani locali, che ne riconoscevano l’indiscussa autorità. Le cose si fecero più complesse con l’avvento della nuova ondata di direttori, con l’allargamento dei quotidiani locali a nuove testate (il gruppo della Gazzetta di Mantova, il Piccolo di Trieste, il Messaggero di Udine) con percorsi culturali, politici, professionali e anche industriali autonomi (da gente come Gigi Riccadona, Lorenzo Bertoli, Carlo Melzi avevi solo da imparare).
Lasciò l’Espresso alla fine degli anni ’90 per andare all’Unità, convinto dalla sirena Veltroni, dalla santa obbedienza che accomunava preti e vecchi militanti e dal sogno, che non poteva capire chi non conoscesse quel lontano rifiuto, di far vedere al suo vecchio partito chi fosse il Mario Lenzi che quei burocrati si erano lasciati scappare.
Non ce la fece, perché mancava l’editore e Veltroni o D’Alema non sono nemmeno l’ombra di Caracciolo.
Gli anni erano passati e Lenzi tornò all’Espresso ormai oltre la settantina e si rimboccò le maniche, mettendosi a lavorare, per ore e ore, accanto ai giovani, italiani e extracomunitari, che avevano dato vita al supplemento di Repubblica dedicato agli immigranti, Metropoli. Insegnava a scrivere, insegnava giornalismo.
Gli ultimi anni li ha passati a Cortona. Ha scritto alcuni articoli per Blitzquotidiano, lucidi, tersi, giovani. Poi è arrivata la morte della moglie, compagna e sostegno per tutta la vita. Gli ho parlato alcuni mesi fa, era stanco, non aveva più voglia di scrivere.