“Quella colonia d’oro macchiata di sangue”. Bernardo Valli su Repubblica ricostruisce un secolo di Libia

Gheddafi negli anni 80

Dal 1911, anno dello sbarco a Tripoli delle truppe “coloniali” dell’Italia di Giolitti, al 2011 delle cruente quanto confuse cronache di questi giorni: un secolo di Libia, che Bernardo Valli su Repubblica ripercorre velocemente.

Un secolo fa gli avvenimenti di Tripoli occupavano, come oggi, le prime pagine dei giornali. La storia non si ripete mai, dicono suoi autorevoli cultori . Questo non esclude somiglianze tra avvenimenti distanti decenni o secoli, che si verificano in contesti politici e sociali che non si assomigliano affatto. Così gli anniversari fanno a volte scherzi, di sapore sinistro. Cent’anni or sono, nel 1911, il 3 ottobre, unità della marina italiana sbarcavano nella capitale libica, seguite il 12 da più consistenti reparti dell’esercito. Nelle ore precedenti i cannoni della flotta al largo avevano bombardato l’As-saraya al-amra, il Forte Rosso, dal quale ancora oggi si può dominare la città affacciata sul mare. Ed altre bombe erano cadute sul forte di Bengasi, in Cirenaica.

Così il Regno d’Italia, mentre a Roma governava il liberale Giovanni Giolitti, metteva in atto la dichiarazione di guerra fatta quattro giorni prima all’Impero ottomano che occupava quella sponda del Mediterraneo. E proprio come accade nel 2011, l’opinione pubblica internazionale condannò allora le atrocità commesse nella città appena conquistata. Nelle capitali dei grandi imperi coloniali (non certo senza macchia nei loro ampi possedimenti africano o asiatici), a Londra e a Parigi, ma anche a New York, si moltiplicarono le manifestazioni contro il bagno di sangue. Di cui l’Italia era colpevole.

Tripoli aveva a quei tempi trentamila abitanti ed era la principale città di un vasto paese ricco di deserti bellissimi e popolato da meno di un milione di uomini e donne dispersi lungo la costa. Giolitti, uomo politico “punto fantasioso e retore”, secondo Benedetto Croce, aveva voluto quella conquista coloniale, sempre per Croce, come un padre che si avvede che la figliola, cioè l’Italia, è ormai innamorata e provvede a darle dopo le debite informazioni e con le debite cautele, lo sposo che il suo cuore ha scelto. Insomma Giolitti dà agli italiani quel che vogliono.

E l’impresa libica si rivelò subito più complicata del previsto. Anzitutto la popolazione, al contrario delle previsioni, non accolse gli italiani come liberatori. A Sciara Sciat (il 23 ottobre 1911), un sobborgo di Tripoli, reparti dell’esercito italiano caddero in un’imboscata tesa da ufficiali turchi e gruppi di partigiani tripolini, e furono annientati. Tre giorni dopo, in un’altra località, sempre in prossimità della capitale, a El-Messri, seicento soldati italiani colti di sorpresa furono uccisi. La reazione fu severa. La città fu messa a ferro e fuoco e (secondo lo storico Nicola Labanca), forse mille ottocento, sui trenta mila abitanti di Tripoli, furono fucilati o impiccati per rappresaglia. E migliaia di tripolini furono arrestati e deportati in Italia. Ci sono voluti anni, e una lunga sanguinosa repressione, prima che la Tripolitania, e soprattutto la Cirenaica e il Fezzan potessero accogliere migliaia di coloni italiani.

Dopo l’iniziale dazio di sangue fatto pagare ai libici (ma anche ai soldati dell’esercito italiano), venne il momento degli architetti, degli ingegneri e degli agricoltori italiani, che cambiarono il volto del Paese. Soprattutto sotto la guida del gerarca fascista Italo Balbo (1934-40). Balbo il pioniere dell’aviazione, che poi rimase ucciso da una cannonata della contraerea italiana in un episodio di “fuoco amico” in cui molti videro lo zampino dell’invidioso Mussolini. Per il fascismo e per le sorti dell’occupazione italiana sappiamo poi come andò. Pochi invece ricordano l’epoca opaca del re filo-inglese Idris Senussi, che governò con mano incerta una Libia travolta dalla corsa all'”oro nero”, scoperto in gran quantità proprio quando gli italiani stavano per perdere quello che fino ad allora era stato ritenuto solo uno “scatolone di sabbia”.

Ma anche per il re Idris, nell’estate del 1969, venne il momento di andarsene. Avrebbe abdicato in favore del principe ereditario, senonché un certo colonnello Gheddafi approfittò della “vacatio” per prendere il potere. E non lo ha ancora mollato.

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