La parola “fine” sulla strage di Brescia: dopo 36 anni arriva il verdetto su piazza della Loggia

La parola fine sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia sta per essere pronunciata, due giudici e sei giurati popolari hanno raggiunto un verdetto di cui si aspetta solo la lettura, prevista per oggi (martedì 16 novembre) nel pomeriggio. A 36 anni di distanza ci sono poche sicurezze: gli otto morti e i 102 feriti non avranno giustizia piena, troppi anni sono passati, troppi depistaggi. Dopo 36 anni i familiari delle vittime non sanno ancora chi, e perché, qualcuno pose una bomba in un cestino dei rifiuti nella piazza, innescandne il potenziale di morte durante il comizio del sindacalista Franco Castrezzati. 5 istruttorie e 8 gradi di giudizio precedenti non hanno fornito una ricostruzione dei fatti certa: l’unica acquisizione definitiva è che i reati contestati possono essere inscritti solo nella definizione di concorso in strage. La parola mandante è stata espunta dal processo, anche se è ormai pacificamente accettata la matrice neofascista.

L’ultimo segmento di questa odissea giudiziaria è durato due anni: un dibattimento con 150 udienze dove sono stati ascoltati migliaia di testimoni. Dal 9 novembre la giuria si è riunita in Camera di Consiglio. La pubblica accusa ha individuato quattro responsabili per i quali ha chiesto, il 21 ottobre scorso, altrettanti ergastoli: carcere a vita per gli ex ordinovisti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, l’ex collaboratore dei servizi segreti Maurizio Tramonte e per il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Per il quinto imputato, Pino Rauti, ha chiesto l’assoluzione: il fondatore di Ordine nuovo, ex segretario Msi, suocero del sindaco di Roma Alemanno,ci sarebbe stata una responsabilità morale, ma “non è stato commesso il fatto”.

Come ha ricordato Benedetta Tobagi in un appassionato articolo pubblicato su Repubblica di lunedì 15 novembre, di quel boato che squassò la piazza esiste una registrazione audio. “Andate ad ascoltarlo (www.28maggio74.brescia.it/index.php? pagina=73): supera la fantasia di qualunque sceneggiatore. Abbiamo la voce orrenda di quella bomba, ma poco altro: i periti si sono dati ancora una volta battaglia sui pochissimi reperti disponibili per determinare la natura dell’esplosivo impiegato, perché la piazza, e con essa i resti dell’esplosione, fu improvvidamente (o scientemente?) lavata a poche ore di distanza dalla strage, su ordine della locale Questura.”

Insomma i depistaggi iniziarono sin dal primo momento. I pm che per ultimi sin sono cimentati nell’inchiesta hanno dovuto affrontare una mole di prove, documenti, dichiarazioni, testimonianze, che lo scorrere del tempo ha invalidato,  oppure reso inservibili, contradditorie, non più attendibili. Dal ginepraio processuale i sostituti Roberto di Martino e Francesco Piantoni hanno ricavato una linea d’accusa che conferma il coinvolgiomento dei neofascisti e di pezzi deviati dello Stato.

L’ordigno che fece strage fu uno che faceva parte del numerose bombe che il gruppo avrebbe avuto a disposizione per vari attentati. “Proprio le dichiarazioni di “Zio Otto”, Carlo Digilio (ex armiere di Ordine nuovo) – ha detto Di Martino – rappresentano l’asse portante del processo”. Il pm ha ribadito che “sono attendibili perchè vengono da una persona perfettamente equilibrata, rilasciate anni e anni prima dell’ictus che l’ha colpito”. Venendo agli imputati ritenuti colpevoli, ricorda che “secondo i testimoni per Maggi la strage era un adeguato mezzo di lotta politica”.

Delfo Zorzi, poi, accusato d’essersi procurato l’ordigno, ha “spiegato nel memoriale inviato al processo che non era a Brescia il giorno della strage. Ma noi non abbiamo detto questo. Poteva però essere a Abano Terme il 25 maggio quando venne decisa la strage”. Maurizio Tramonte, l’ex fonte Tritone dei servizi segreti: “Era presente alle riunioni in cui si decise la strage, la sua velina del 6 luglio del 1974 è per noi quasi una confessione extragiudiziale di Maggi. Poi Tramonte ha ritrattato, ma la sua ritrattazione è stata ritenuta risibile da tutte le autorità che se ne sono occupate. Ha detto d’aver parlato sotto l’effetto di cocaina, ma poi in carcere a Cremona a un compagno di cella contestualmente diceva la verità”.

E infine Delfino. “Di lui ho parlato abbastanza – ha concluso – si è reso protagonista di un depistaggio mostruoso”. E per Manlio Milani, presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime, rispetto ai precedenti processi la novità maggiore è proprio quella della posizione dell’ex generale dei carabinieri che quando scoppiò la bomba era capitano del nucleo operativo del comando provinciale. “In lui riponevamo fiducia, era lo Stato. Il suo depistaggio ha impedito di prevenire le altre stragi”, ha detto Milani.

L’assoluzione di Rauti, infine, codice alla mano era obbligata. “Ha una responsabilità morale per quanto avvenuto – ha spiegato – dalle veline abbiamo capito ciò che Rauti predicava. Ma nei suoi confronti non ci sono situazioni di pseudo responsabilità oggettiva. Quindi è da assolvere seppure con la formula prevista dal secondo comma dell’articolo 530”.

C’è da attendere ancora qualche ora, dunque, e il sipario su questa vicenda potrà essere finalmente tirato. Una verità che per i parenti delle vittime è semplicemente un simbolo, “perché credevano che la democrazia va difesa ogni giorno, con gesti insieme simbolici e concreti”.

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Alberto Francavilla