Un appassionato atto di autoaccusa nei confronti della classe dirigente, cui appartiene per nascita e per ruolo, è stato pronunciato dall’archeologo Andrea Carandini, uno dei più importanti studiosi italiani e presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: “Abbiamo ingannato i giovani, dando loro vino sempre più annacquato, conservato in bottiglie con l’alloro sull’etichetta: ma il simbolo più non illude”.
Scrive: “Oggi, dopo generazioni di egualitarismo, che ha pericolosamente ravvicinato l’asino al sapiente, la qualità culturale si è straordinariamente abbassata, anche se il bisogno di cultura si è invece esteso”.
Sembra un autodafé: “Un certo egualitarismo inintelligente, diffuso tra noi, ha frenato gli spontanei e liberi processi di differenziazione culturale, il bisogno di elevazione umana. Così le opere della libertà, che sono necessariamente diseguali, rischiano di essere svalutate, dissipate, mutilate. Allora le qualità umane da eccellenti diventano mediocri e — peggio — si diffonde un amore sconsiderato per la mediocrità: come è bello essere ignoranti, protervi, urlatori, volgari!” .
Chiaro il riferimento al mondo universitario: “Il merito nella ricerca era il solo metro di giudizio per l’avanzamento negli studi. Libri, archivi, antichità, belle arti, monumenti e paesaggi costituivano il serbatoio nazionale della memoria su cui si edificavano persone e personalità, che ora si plasmano invece su insistenti pubblicità e consumi sempre più inattraenti”.
Un urlo di dolore: “Cosa abbiamo fatto! Che tristezza!”
Quello di Carandini è lo sfogo di un intellettuale aristocratico, in parte ingiusto nei confronti delle nuove fasce di ex proletariato e sotto proletariato cui la democrazia ha dato pari dignità e diritto di voto rispetto alle vecchie classi dominanti e che certo trovano più sollazzo a guardare il Grande fratello di Canale 5 che a leggere le malefatte del Grande fratello nel 1984 di George Orwell, non in alternativa alla lettura dei classici ma a una vita schiantata dalla fatica, dalla miseria e dal vino.
Ma dice delle cose verissime e giustissime quando mette tra le responsabilità dell’establishment, che ha portato l’Italia dal terzo mondo al benessere negli ultimi sessant’anni, anche lo sfascio del sistema educativo, accelerato negli ultimi vent’anni, col risultato che, per consentire a tutte le classi di raggiungere un livello di istruzione prima negato, invece di mantenere standard formativi che facessero culturalmente crescere i meno attrezzati sono stati inesorabilmente abbassato i valori. Il risultato è che “chi può corre a formarsi e a lavorare altrove”.
La conclusione è angosciante quanto il suo obiettivo ormai impossibile: “È straordinariamente urgente un riscatto culturale, scientifico e storico, dell’Italia, pena una decadenza senza fine di fronte a un globo che, al contrario, avanza”.
Carandini lancia il suo appello dalla prima pagina del Corriere della Sera, giornale di cui suo nonno, un secolo fa, era direttore. Carandini appartiene a una famiglia che è certamente parte, ieri come oggi, dell’Italia migliore: suo nonno, Luigi Albertini, lasciò la direzione del Corriere, nel 1925, per non piegarsi al fascismo e impiegò i soldi della liquidazione non in bunga bunga ma in una tenuta agricola a Torrimpietra, alle porte di Roma, che fu trasformata, dal figlio Leonardo e dal genero, Nicolò,padre di Andrea, in una azienda ancor oggi modello. Nicolò Carandini entrò nelle file dell’antifascismo clandestino, fu il primo ambasciatore italiano a Londra dopo la guerra e fu tra i fondatori del Partito radicale.
Andrea Carandini, titolare della cattedra di Archeologia classica all’Università La Sapienza di Roma, ha scoperto le mura dell’ VIII secolo a.C. scavando sulle pendici settentrionali del colle Palatino, a Roma, e ha ricostruito le prime fasi della vita della città confermando il racconto tradizionale sulla fondazione e le vicende dell’età regia.
Le sue parole sono un pianto disperato, anche se l’avvio dell’articolo è forse un po’ troppo snob: “Un tempo la cultura era una religione laica, imprescindibile. Visitando a Roma il Giardino del Lago, col bel tempietto dedicato (in lettere greche) ad Asclepio Salvatore, nessuno si sarebbe domandato: chi era costui?”. Nessuno, naturalmente intendendo quei pochi privilegiati che al tempo vivevano nei quartieri borghesi di Roma e potevano passeggiare a Villa Borghese, mentre gli antenati degli “asini” contemporanei, tranne limitate eccezioni di esemplari rintracciabili tra operai e artigiani che credevano nella redenzione attraverso la cultura, si spaccavano la schiena nei campi, magari proprio a bonificare Torrimpietra agli ordini del padre del professore.
Carandini ha invece ragione da vendere quando sostiene che si è passati dalla convinzione, per pochi, “che leggere, riassumere e studiare il latino fossero esercizi essenziali per la cura della mente, come era necessaria la cura del corpo” al fatto che ormai il corpo ha preso un sopravvento, in modo del tutto sproporzionato” e questo è un fatto diffuso e ossessivo per tutte le categorie sociali.
Un dato di cui Carandini non tiene conto, come in genere non ne tiene conto chi paragona i nostri giorni a un qualunque passato, è che sono radicalmente cambiati i termini del problema e che si tratta di un cambiamento che non ha visto uguali nel passato, se non ai tempi della antica Roma, quando tutti i cittadini godevano di un benessere diffuso concentrato nella formula “panem et circenses”, anche se nel paniere del pane oggi ci sono automobili telefonini Sharm-el-Sheik e settimane bianche e ai circensenses non provvede più Nerone ma Berlusconi con le sue tv.
Nell’articolo c’è un passaggio quasi sublime, dove se la prende con “le ragazze mediterranee” di oggi, che “arrivano a ridurre i fianchi prosperosi come quelli di silfidi nordiche denutrite, magari indebitandosi”. Eppure, constata amaramente Carandini e non si può che consentire, “il corpo è quel che è, lo si può allenare e imbellire, ma il dato naturale finisce per prevalere, e l’avvenenza non dura mai abbastanza. Il cervello non è così, non è un dato: lo fabbrichiamo giorno per giorno— anche da vecchi— studiando, riflettendo, elaborando idee, se abbiamo gli strumenti per farlo. La mente può rimanere un misero e triste cespuglietto, oppure può diventare un leccio grandiosissimo, come quello dietro al tempietto del dio della salute al Giardino del Lago”.
Invece, “quanti in Italia leggono un libro all’anno? Naturalmente curare il corpo rende più nell’immediato, dà soddisfazioni apparenti. La mente invece se ne sta celata nella sua scatola, nonostante sia la realtà più complessa che conosciamo nell’universo. Ma è il cervello a determinare alla lunga la riuscita sostanziale di una vita, una felicità raggiungibile e serena, spoglia di droghe. Il prevalere di stereotipi mentali, recepiti e potenziati a specchio dai media, è quanto di più nocivo possa esserci per lo sviluppo della mente”.