Gli stessi alambicchi degli statistici e degli analisti confermano che Genova e la Liguria hanno, per gli immigrati, un tasso di attrattiva o accoglienza molto più basso che nelle altre regioni.
Se questo tasso di accoglienza si basa su 1) casa; 2) scuola; 3) capacità di regolarizzazione dell’esercito di immigrati, Genova e la Liguria sono in fondo alla classifica. In poche parole i genovesi trattano male quelli di cui avrebbero bisogno per sostenere non solo il loro tasso demografico, ma anche la loro economia, di assistenza e di rilancio edilizio. Lo dicono non i partiti dell’opposizione ma gli studi speciali del CNEL.
Il paragone con il 1931, clamoroso per le assonanze con le crisi mondiali e per il livelli demografici richiamati sotto i seicentomila abitanti, ha per gli esperti una lettura ancora più preoccupante.
Quei 590 mila genovesi del 1931 avevano una composizione sociale e demografica molto diversa dai loro nipotini del 2010. Erano molto più giovani. Oggi a Genova ogni 100 quindicenni ci sono 236,5 ultraseessantacinquenni: questo è l’indice di invecchiamento.
Gli ultrassessantacinquenni sono 163 mila e rappresentano in quota il 6,5 della popolazione, e non può consolare il fatto che dopo il 1931 la popolazione, molto più giovane, anche per le politiche demografiche del regime mussoliniano, aumenta perchè l’industria genovese preparava la guerra e andava verso la piena occupazione.
Sotto il tacco di Mussolini, dei gerarchi e dei podestà, la popolazione era, comunque, più vitale di quella che oggi abita la Superba. Gli esperti giudicano questa una “differenza radicale”. Indipendentemente dalla politica, come è ovvio: questione di età.
La radicalità c’è anche nel resto dello scomodo raffronto con l’era fascista e diventa un vero Sos, se si cerca qualche conforto nelle possibilità di sviluppo del tessuto economico cittadino. Oggi le speranze sono aggrappate a un’opera, il Terzo Valico appenninico, che i genovesi aspettano dal 1903 e che continui rinvii fanno apparire come un miraggio. Si tratta soltanto di trentadue chilometri di galleria nell’Appennino, che permetterebbe a treni più veloci lanciati in gallerie più moderne di sturare il porto di Genova invaso dai container, che oramai non si sanno più dove mettere e di velocizzare a una quarantina di minuti di tempo il viaggio Genova e Milano, caricando di prospettive il futuro genovese: vivi a Genova e lavori a Milano e, all’inverso, lavori a Milano e usi Genova e le sue Riviere per il tempo libero, i centri direzionali, i porticcioli, la qualità della vita.
Discorsi eterni che sotto la Superba, dimagrita di abitanti e iniziative, diventano perfino dibattiti pubblici, chiamati alla francese debat public tanto per infiocchettarli, organizzati dal sindaco Marta Vincenzi e durati sei mesi con la conclusione del nulla operativo. Per il momento.
Riva, patron dell’Ilva di Cornigliano non fa rientrare in fabbrica gli operai come prevedeva un accordo blindato e di fatto mette una lapide su una prospettiva industriale nel Ponente postfordiano di Genova.
In centro, la grande torre del Carlo Felice rischia di diventare un buco nero anche in senso fisico, con il pronao disegnato due secoli fa dall’ architetto Carlo Barabino trasformato in una passerella per l’addio definitivo alla lirica. Solo che su questa passerella rischia di sfilare, al suono di un’orchestra schierata come sulla tolda del Titanic, un pubblico di soli settantenni, ottantenni, novantenni. I numeri in rosso, le generazioni, la vitalità……E su questo che scende il sipario genovese?