La crisi di Genova. Mancano idee, traffici, soldi. E mancano gli abitanti, scesi sotto i 600 mila come nel 1931

Genova. Il teatro Carlo Felice

Il dato demografico fa accapponare la pelle sotto la Lanterna, in un fine estate durissima, mentre il mitico Carlo Felice, il teatro dell’ Opera, ricostruito negli anni Novanta dopo le distruzioni belliche, rischia di chiudere i battenti e l’ultima grande fabbrica di uno storico destino industriale, l’Ilva, ex Italsider di Cornigliano, mette in cassa integrazione gli ultimi operai di un esercito che ne contava decine di migliaia.

La popolazione genovese scende sotto il livello dei seicentomila abitanti per la prima volta dal 1931, due anni dopo la Grande Crisi del 1929. Oggi, 2010, due anni dopo il patatrac americano, ecco che la Superba fa i conti con un impoverimento demografico che il flusso immigratorio non riesce più a invertire, dopo avere sorretto per almeno 20 anni lo sboom della natalità, tanto forte da provocare gli anatemi di Papi come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI Ratzinger e di cardinali come il “mitico” Giuseppe Siri, Dionigi Tettamanzi e l’attuale tonante segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone: “Genovesi, avari, stitici, non fate più neppure bambini…..”

Gli statistici mettono nei loro fumosi alambicchi i dati sfornati dal precensimento per l’anno prossimo e il risultato combina con effetto drammatico la frenata dell’immigrazione con la denatalizzazione dei genovesi.

Oggi gli immigrati, in gran parte sudamericani e equadoregni, sono 45 mila e rappresentano oltre il 7 per cento della popolazione peraltro decrescente. Ma diminuiscono con tassi prepotenti per ragioni connaturali alla grande crisi genovese e mondiale di questi anni: non trovano più occupazione nella ex Superba. I settori di impiego che erano attraenti sono rosicchiati, per non dire devastati, dalla crisi.

Facevano badanti e colf, trovavano lavoro nel settore edilizio e questi due filoni si stanno seccando con una rapidità inaudita. Badanti e colf incominciano a costare troppo, diventano consumi che si tende a “tagliare”, salvo nei quartieri residenziali dei più ricchi, dove la scena della giovane e vistosa badante russa che sorregge l’anziano signore genovese, si proietta ancora in tante modulazioni e variazioni etniche e sociali. E dove interi palazzi della ottocentesca Circonvallazione a Monte, la Boston genovese o del rutilante quartiere di Albaro, la Miami in riva al mare, tra ville e giardini, sono oramai in mano a eserciti di efficienti peruviani, bielorussi, ucraini, filippini, che gestiscono superappartamenti abitati da giovani ultraottantenni, molti quasi centenari.

Una visione un po’ inquietante di un futuro che sta facendo di Genova la capitale di un’esperienza unica in Europa, l’invecchiamento a strati densi di una popolazione intera.

L’altro filone che secca e che, comunque, frena l’immigrazione, è quello edile che la grande crisi del 2008 ha spazzato come un tornado, espellendo dal mondo del lavoro albanesi, equadoregni, peruviani, ma anche tanti nordafricani. Tremila posti di lavoro bruciati come cerini, senza calcolare l’indotto.

E allora Genova addio, meglio Milano e Torino, dove le opportunità di lavoro resistono un po’ di più che sull’ondulato e qua e là sfilacciato tessuto economico genovese: la metropolitana, unica linea, si ferma in galleria per mancanza di fondi, le grandi opere infrastrutturali che avrebbero cambiato la città sono ferme, l’edilizia scava solo box per posteggi altro che realizzare nuovi quartieri e, dopo anni di match anche violenti tra quartieri, imam e leghisti doc, non si decide neppure in quale quartiere costruire la Moschea e il nuovo stadio di calcio, chiesto dai presidenti di calcio e da intraprendenti imprenditori edili che restano con un palmo di naso o che bruciano capitali per opere come la ristrutturazione del water front di Corso Italia, la storica Promenade genovese, che le amministrazioni pubbliche, impastoiate in beghe ambientaliste e dipietriste non riescono ad approvare.

Gli stessi alambicchi degli statistici e degli analisti confermano che Genova e la Liguria hanno, per gli immigrati, un tasso di attrattiva o accoglienza molto più basso che nelle altre regioni.

Se questo tasso di accoglienza si basa su 1) casa; 2) scuola; 3) capacità di regolarizzazione dell’esercito di immigrati, Genova e la Liguria sono in fondo alla classifica. In poche parole i genovesi trattano male quelli di cui avrebbero bisogno per sostenere non solo il loro tasso demografico, ma anche la loro economia, di assistenza e di rilancio edilizio. Lo dicono non i partiti dell’opposizione ma gli studi speciali del CNEL.

Il paragone con il 1931, clamoroso per le assonanze con le crisi mondiali e per il livelli demografici richiamati sotto i seicentomila abitanti, ha per gli esperti una lettura ancora più preoccupante.

Quei 590 mila genovesi del 1931 avevano una composizione sociale e demografica molto diversa dai loro nipotini del 2010. Erano molto più giovani. Oggi a Genova ogni 100 quindicenni ci sono 236,5 ultraseessantacinquenni: questo è l’indice di invecchiamento.

Gli ultrassessantacinquenni sono 163 mila e rappresentano in quota il 6,5 della popolazione, e non può consolare il fatto che dopo il 1931 la popolazione, molto più giovane, anche per le politiche demografiche del regime mussoliniano, aumenta perchè l’industria genovese preparava la guerra e andava verso la piena occupazione.

Sotto il tacco di Mussolini, dei gerarchi e dei podestà, la popolazione era, comunque, più vitale di quella che oggi abita la Superba. Gli esperti giudicano questa una “differenza radicale”. Indipendentemente dalla politica, come è ovvio: questione di età.

La radicalità c’è anche nel resto dello scomodo raffronto con l’era fascista e diventa un vero Sos, se si cerca qualche conforto nelle possibilità di sviluppo del tessuto economico cittadino. Oggi le speranze sono aggrappate a un’opera, il Terzo Valico appenninico, che i genovesi aspettano dal 1903 e che continui rinvii fanno apparire come un miraggio. Si tratta soltanto di trentadue chilometri di galleria nell’Appennino, che permetterebbe a treni più veloci lanciati in gallerie più moderne di sturare il porto di Genova invaso dai container, che oramai non si sanno più dove mettere e di velocizzare a una quarantina di minuti di tempo il viaggio Genova e Milano, caricando di prospettive il futuro genovese: vivi a Genova e lavori a Milano e, all’inverso, lavori a Milano e usi Genova e le sue Riviere per il tempo libero, i centri direzionali, i porticcioli, la qualità della vita.

Discorsi eterni che sotto la Superba, dimagrita di abitanti e iniziative, diventano perfino dibattiti pubblici, chiamati alla francese debat public tanto per infiocchettarli, organizzati dal sindaco Marta Vincenzi e durati sei mesi con la conclusione del nulla operativo. Per il momento.

Riva, patron dell’Ilva di Cornigliano non fa rientrare in fabbrica gli operai come prevedeva un accordo blindato e di fatto mette una lapide su una prospettiva industriale nel Ponente postfordiano di Genova.

In centro, la grande torre del Carlo Felice rischia di diventare un buco nero anche in senso fisico, con il pronao disegnato due secoli fa dall’ architetto Carlo Barabino trasformato in una passerella per l’addio definitivo alla lirica. Solo che su questa passerella rischia di sfilare, al suono di un’orchestra schierata come sulla tolda del Titanic, un pubblico di soli settantenni, ottantenni, novantenni. I numeri in rosso, le generazioni, la vitalità……E su questo che scende il sipario genovese?

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fmanzitti