
Propongo una riflessione di Enrica Bonaccorti, su un argomento, quello del talento, a me molto caro.
“Dov’è finito il talento in Italia? Certamente non dove pretende di essere. Non è sugli scranni, non è sugli schermi, non è nelle idee né nel modo di comunicarle. Nel nostro giardino qualche bellissimo fiore c’è sempre, ma non è più un bel giardino. Troppi parassiti indisturbati, troppe piogge acide ignorate dalle torri d’avorio. E intanto la bellezza tanto invocata viene lasciata marcire, quel che resta quasi stona in mezzo alla gramigna che ha invaso il terreno. Si può ancora bonificarlo? Forse, ma ogni giorno che passa è più difficile, perché il tempo porta alla mala erba il suo nutrimento più forte e più subdolo: l’abitudine. Inesorabilmente, poco a poco, non ci si accorge più che il talento non c’è. Quando la sua assenza porta alla risata (e se ti diverti perdoni) non è solo ghiaia che sfugge, è l’inizio della valanga. Inutile condannare a parole e insieme accettare tutto. Se vivi come non pensi, finirai per pensare in linea con la vita che fai, mentre credi di esserne indenne perché continui a condannarla. Anche se si critica, non si resta fuori da quello in cui si entra. Forse una delle parole più pericolose di questi ultimi anni è divertente. Il personaggio pubblico fa quello che non sa fare? Divertente! Il politico fa una gaffe dietro l’altra? Divertente! Uno svarione linguistico diventa subito di moda, e se le parolacce portano l’applauso, ne sentiremo sempre di più. Errori e comportamenti volgari accendono più l’attenzione che la condanna, dunque non la rimozione, ma il suo contrario. Perché? Ma perché è divertente, è l’inciampo che sollecita la risata anche se ci rompe le gambe. Forse è già tutto nella parola: divertente deriva da divertere, che in latino vuol dire distrarre. Evidentemente, la pochezza ci distrae di più della grandezza. Anche perché ci tranquillizza, mentre l’ammirazione ci affatica, ci annoia, a lungo andare ci irrita persino. La mediocrità invece provoca una rassicurante identificazione, o ci fa sentire piacevolmente superiori. Così la base si allarga, l’indotto si mette in moto, e se una pernacchia fa il picco d’ascolto la prossima volta ce ne saranno due. Non si teme più di essere giudicati, tanto basta invocare l’ironia o un’intenzione provocatoria, e gli svarioni basta chiamarli neologismi e ribadirli in più occasioni possibili. All’onore si è sostituita la visibilità. Quello che provoca rispetto è il risultato, non il percorso pe raggiungerlo, né soprattutto la sua valutazione intrinseca, perché il risultato coincide con se stesso, a prescindere: al successo non serve essere, e neppure avere, ma esserci. Oggi è questa la meta, il traguardo agognato da raggiungere con determinazione e spregiudicatezza, e a volte, incidentalmente, con il talento.”