Alfie è un ragazzo in fondo normale, intelligente, socevole. Quando parla con la giornalista del quotidiano inglese si mostra costantemente a suo agio, risponde a tutte le domande con prontezza, prende perfino l’iniziativa della discussione. A volte ha la petulanza degli adolescenti e mette avanti traballanti argomentazioni. Ma così sono fatti i teenager e Alfie non fa eccezione.
Dice di essere un artista concettuale. Rivendica con orgoglio la sua ultima trovata – imbalsamare nella formaldeide Damien Hirst, il popolare e quotatissimo artista britannico. Al suo attivo, continua con una punta di fierezza, ha già qualche esibizione svoltasi a Londra e a Brighton. In una di queste ha perfino venduto la sua prima opera: una scatola di cartone sui cui aveva dipinto:«perché non posso permettermi una tela».
L’arte di Alfie – quella scatola di cartone – è una metafora della sua vita, fatta com’è di piccoli espedienti. La prima volta che è stato fermato dalla polizia aveva dieci anni, gli sembra di ricordare. Gli sembra soltanto. Quella prima volta è stato solo l’inizio di una gioventù scandita da regolari comparse in tribunale. La scuola non ha mai fatto per lui. Un paio di volte ne è stato espulso e molto presto ha cominciato a non andarci.
Neanche maggiorenne ha abbandonato la famiglia, la casa. Senza un lavoro, senza una fissa dimora, se non quelle messe a disposizione dagli amici o dalla carità pubblica, la vita di Alfie è stata all’insegna dell’instabilità, della piccola delinquenza. Poi, qualche giorno fa, qualcosa è cambiato. Per la prima volta, i giudici non hanno mostrato l’abituale clemenza, e lo hanno condannato a 11 giorni di prigione. Alfie di colpo non è stato più solo un’anima persa, un cattivo ragazzo. E’ diventato un criminale. E tutto questo per quale capo d’imputazione? Furto di palloncini. Alfie ne aveva rubati qualche centinaio in un popolare centro commerciale. Voleva rivenderli, gonfiati con l’elio che gli avrebbe dato un amico, ad una fiera di paese e guadagnarci sopra.
Quando racconta la prigione, Alfie non ne descrive il lato pauroso. In prigione non c’è nulla da temere, assicura. E’ anzi uno dei posti più sicuri in cui abbia vissuto. La noia non esiste, la compagnia è costante. Anche il cibo è meglio di ciò che è abituato a mangiare. Ma, nonostante questo, si tratta pur sempre di un’esperienza orribile, un’esperienza che non vuole più ripetere. «Perché – dice – dovrei condividere la doccia con altre 18 persone? In prigione devi cacare nella cella con qualcun altro dentro. A volte c’è una porta, a volte no.» Uscire da lì, racconta, gli ha regalato le più vivide impressioni della sua vita: «Senti il vento sulla faccia, vedi la luce, senti il rumore delle macchine. E’ durato solo 11 giorni, ma è stato disorientante.»
Durante la conversazione, il telefono di Alfie suona in continuazione. Gentilmente, ma con fermezza, respinge tutti quanti. «Fratello, non posso parlare ora. Sto facendo un’intervista col Guardian.» A volte, indirizza i corrispondenti verso qualcun altro. «Chiamalo, digli che è Alfie che ti manda. Lui, ti può aiutare. Tranquillo.» Fino a poco tempo fa, prima della prigione, Alfie era un piccolo spacciatore, come ce ne sono tanti in Inghilterra. Oggi, dice che sta lontano dal business. «Vendere droga prende un sacco di tempo – dice – Ed è un gran stronzata. Non ne vale veramente la pena».
Alfie dice di volere cambiare. La prigione lo ha trasformato e gli ha dato la possibilità di un nuovo inizio, di una redenzione. «Voglio raggiungere il successo nel modo dell’arte» – dice con entusiasmo e ingenuità. Poi, improvvisamente capisce che le sue ambizioni non sono, almeno nell’immediato, raggiungibili. Nel frattempo, conclude sarebbe bello lavorare per un museo, o, in mancanza di altro, per uno stand di sandwich. «Comunque non ho avuto molta scelta fino ad adesso, no?» dice, rivolto alla giornalista del Guardian.