TORINO – Arrigo Sacchi: “Juve come Rosenborg in Europa non vince mai”. Una bordata a freddo, in un momento in cui la squadra ha vinto 17 delle ultime 18 partite, in cui è in testa al campionato dopo un inizio di stagione da incubo, in cui si gioca il tutto per tutto in Champions League in una missione quasi impossibile a Monaco di Baviera. Eppure per Arrigo Sacchi la Juventus “è come il Rosenborg. In Norvegia vince lo scudetto ogni anno ma in Europa non vince”.
Parole chiare e dirette, probabilmente ingenerose che il tecnico pronuncia in una intervista a LaPresse. Sacchi non le manda a dire anche se non manca anche un complimento: “La Juve è dieci anni avanti a tutte le altre per coesione e competenza. Il suo limite sono i verbi. Noi al Milan ne coniugavamo tre: vincere, convincere, divertire. La Juventus ne coniuga uno: vincere. È una debolezza. Si dirà: ‘Ma in Italia continua a vincere’. E io dirò: anche il Rosenborg vince sempre lo scudetto in Norvegia. Ma cosa conta è la Champions League e in Europa la Juventus fatica”.
Stesso discorso per Allegri. Per lui da Sacchi complimenti fino a un certo punto:
“Io divido gli allenatori in tre categorie. La prima è quella che comprende un piccolo drappello di geni, di innovatori, che mettono il gioco al centro del loro progetto. La seconda è quella degli orecchianti che seguono la moda senza sapere un granché. La terza riguarda quelli orgogliosamente aggrappati al passato, che fanno della tattica esasperata il loro modus operandi, che sono ingessati a un solo sistema di gioco. Max è una via di mezzo tra le prime due: è un grande tattico, sa cambiare in corsa, però non deve accontentarsi solo di vincere”.
E così a meritarsi gli elogi di Sacchi resta solo Antonio Conte, su cui l’ex ct dice:
“Conte è un autentico fenomeno, deve solo spogliarsi di una certa italianità. Che significa essere più coerente. Il calcio totale non ha molto a che vedere con l’italianità. Io Antonio l’ho visto allenare: ha idee chiare, talento, inventiva. È ora che si tolga di dosso la paura. Basta giocare con la sindrome di Pollicino addosso: palla a noi, non agli altri”.