Un gruppo che non si e’ mai sciolto, neanche quando qualcuno si e’ allontanato dal pallone (come Paolo Rossi), oppure e’ stato prematuramente rapito dalla morte (come Scirea). Un gruppo che ha mantenuto i contatti con l’uomo che l’ha plasmato e che continuera’ a considerarlo vivo. Un legame veramente speciale quello che legava gli azzurri a Enzo Bearzot, riconoscenti perche’ prima di condurli al traguardo piu’ importante della loro carriera, aveva saputo difenderli da critiche feroci.
E li aveva sostenuti quando decisero quel clamoroso e innovativo silenzio stampa che anche oggi, di tanto in tanto, viene imitato da questa o quella squadra di club. Portavoce era Dino Zoff, altro friulano di poche parole, che Bearzot considerava il suo terzo figlio, e che un giorno si sarebbe seduto sulla panchina azzurra con minor fortuna.
Nel dicembre del 2000 il gruppo si strinse ancora una volta intorno a Bearzot, che presentava (con l’autore Gigi Garanzini) il libro biografico, ‘Il romanzo del vecio’. In quella serata il tecnico sorprese i suoi vecchi allievi rivelando che il calcio non gli mancava, pur amandolo, perche’ ”sentivo di non appartenervi piu’ ”.
C’era amarezza nelle sue parole, un po’ di malinconia, forse stimolata dalle note del jazz (questa musica era la sua seconda passione, naturalmente dopo il football). Quella sera Bearzot parlava del calcio al passato remoto, come di una storia finita tanto tempo prima.
Ma dopo poco piu’ di un anno – a gennaio del 2002 -, mettendo fine a un distacco ventennale, Bearzot aveva accettato con rinnovato entusiasmo l’invito della Federcalcio ad assumere la responsabilita’ di presidente del settore tecnico della Figc. In quell’occasione Claudio Gentile, uno del gruppo, allora tecnico della Under 21, ricordando il bel gioco espresso dalla nazionale nei mondiali del ’78 (Argentina, azzurri quarti) e dell”82, lo defini’ il miglior ct azzurro dopo Pozzo (morto come lui il 21 dicembre, del 1968), sostenendo che ”Enzo Bearzot non deve restare lontano dal calcio, perche’ il calcio e’ il suo mondo”.
E lui: ”Sono contento perche’ l’indicazione viene dal mio mondo”. La sua avventura nel calcio era cominciata come giocatore: dalla Pro Gorizia, era passato, ventenne, all’Inter, poi al Catania, poi all’Inter nuovamente, ed aveva terminato la carriera al Torino.
Era un difensore grintoso ma corretto, non privo di tecnica. Delle sue esperienze di calciatore seppe far tesoro alla guida della nazionale, riuscendo ad utilizzare al meglio i giocatori che sceglieva, incurante dei suggerimenti e delle critiche della stampa, anche quando i risultati non gli davano ragione.
Fautore del ‘primo non prenderle’ non fu mai catenacciaro. Fu maestro invece nell’esaltare l’arte del contropiede con cui nell’82, nel Mundial, di Spagna schianto’ una dopo l’altra Argentina, Brasile e Germania. Indimenticabili le imprese dei terzini-ala Cabrini e Gentile, delle ali a tutto campo Conti-Graziani, di Tardelli, giocatore universale, di Zoff portiere-saracinesca, di Paolo Rossi guizzante, imprendibile opportunista sotto rete, di Scirea, direttore d’orchestra di un gioco che a tratti ricordava il free-jazz per la sua imprevedibilita’.