ROMA – Corvino: “Ho una maglietta di Vidal dedicata ‘al cogl… che non mi prese'”.
Il d.t. del Bologna, per la prima volta da ex contro la Fiorentina, svela un sacco di aneddoti sulla sua carriera: “Mutu? Non lo cedemmo per 20 milioni e andai via. Della Valle mi richiamò”. Ne parla La Gazzetta dello Sport in un articolo a firma di Alessandra Gozzini.
Pantaleo Corvino ha una bacheca ricca di trofei, in ordine di valore affettivo: sei nipoti (Martina, Cristiano, Annaluna, Aurora, Lorenzo e tra pochissimo Nicole), dodici titoli nazionali (a livello giovanile), due qualificazioni in Champions con la Fiorentina (potevano essere il doppio), una Scarpa d’oro (Luca Toni), una promozione in A (Bologna).
La salvezza del Bologna non varrà una coppa ma è il prossimo premio da inseguire. Riuscirete?
“La proprietà lo merita per i sacrifici che ha fatto e che fa. Io chissà che darei, sarebbe il primo scalino su cui salire, per poi farlo ancora e arrivare in alto: Saputo, sempre vicino, è una garanzia, per gli sforzi economici e le idee, anche in fatto di strutture ed esperienze, che ha la possibilità di poter importare dall’America e dal Montreal Impact. C’è un gruppo di lavoro unito, con Fenucci, Di Vaio e altri, e una città che meriterebbe subito altri traguardi”.
Quand’era a Firenze ha portato a termine tanti colpi di mercato. Al contrario: una cosa non fatta ma da fare?
“Vendere Mutu alla Roma per 19 milioni e 750 mila euro. C’erano già le mail scambiate. Era estate, eravamo nel Mugello, quando la partenza di Adrian venne bloccata me ne andai dal ritiro e tornai a casa mia, a Vernole. Mi chiamò Diego Della Valle per calmarmi e confortarmi, aveva comunque apprezzato il mio lavoro”.Non confessò che Vidal venne fino a casa sua e poi l’affare saltò all’ultimo?
“Vero. Quando è andato al Bayern ha rincarato la dose: da Pulgar, con cui condivide il manager, mi ha fatto avere una maglia della nuova squadra con dedica speciale: ‘A un coglione che si è fatto convincere a non prendermi’”.
A Firenze ha pagato i risultati negativi degli ultimi mesi, l’essere troppo “capo” della sua area o l’esser troppo esposto?
“Alla fine del quinto anno, dopo tre quarti posti e un terzo posto per punti fatti, eravamo ad aprile in semifinale di Coppa Italia contro l’Inter di Mourinho, e dopo esserci giocati gli ottavi di Champions con il Bayern. L’anno dopo, in autofinanziamento, siamo ripartiti con Neto, Nastasic, Romulo, Seferovic, Behrami, Cerci. Ci voleva più tempo. Il calcio è un’azienda, ogni area deve avere un ‘capobranco’ che è uno solo: ma non sono un accentratore, altrimenti non avrei portato Macia tra i dirigenti della Fiorentina. E se uno è capo ci deve mettere la faccia, che non vuol dire voler comparire a tutti i costi”.
Fu criticato perché disse: “Per la Fiorentina arrivare quarta è come vincere scudetto e Champions League”. Lo ridirebbe?
“La sincerità fa parte di me. Arrivare per due anni prima del Milan o della Roma, che fatturano tre volte di più, voleva dire che avevi vinto il tuo scudetto e la tua Champions. Al contrario non voleva dire non esser vincenti, sono partito dalla terza categoria e arrivato terzo in Serie A, la voglia non mi manca. Lo ridirei a squarciagola”.