Diego Abatantuono e il “suo” Milan: “Piango per Thiago, non per Ibra. Lo odio”

Diego Abatantuono (Lapresse)

ROMA – “Il mio milanismo è una religione. Una vocazione che parte da lontano, come nascere bello o brutto, il perché non lo sai mai”. Diego Abatantuono, intervistato dal Fatto Quotidiano, spiega come superare l’estate dell’astinenza pallonara con fiducia. “Ho sistemato l’ufficio in piscina, il computer sotto l’ombrellone. Prima ho dimenticato il telefono al sole per 30 secondi e rispondendo a un amico che mi chiedeva nuove su Ibrahimovic è avvenuta la fusione. Una fonduta. Per uno che sogna la sintesi tra le virtù culinarie di Tognazzi e lo sport interpretato da Vianello, sono a buon punto”.

Prima folgorazione da Milan? “Il mio diciottesimo compleanno durante la fatal Verona al Bentegodi. Io con gli amici a camminare in stato di choc per la città in terra straniera e il Milan che perde lo scudetto all’ultima giornata. La Juve vinse a Roma, anzi la Roma si lasciò battere”.

Quindi un curioso racconto d’infanzia: “Trovai il portafogli di mio nonno sul pavimento e mi salvai. C’erano due foto. Rivera e Padre Pio. “Chi sono?” chiesi. E lui paziente “Il primo è un uomo che fa miracoli e l’altro un popolare frate pugliese”. Rivera viveva al settimo piano del suo condominio. Io abitavo al secondo, ma in ascensore fingevo sempre di non riconoscerlo. Una forma di timidezza, di pudore. A volte salivamo insieme e in preda al lapsus, premevo “7”. Poi guardavo per terra e lo scortavo osservandomi i piedi”.

Estate di cessioni. “Piango per Thiago Silva, uno che non avrebbe sfigurato nel Milan morale dei vari Evani, Costacurta e Tassotti, ma non verso una lacrima per Ibrahimovic. Fosse stato per me, sarebbe andato via da tempo. Prima di fare gol, inscena almeno 5 comportamenti che non me lo fanno stare simpatico. Affitta isole per cacciare alci, è arrogante, provoca. Uno che manda costantemente la gente a fare in culo non può rappresentare per i giovani un valore. Pensiamo a Van Basten, a Baresi, ad Ancelotti io e i miei figli siamo cresciuti con quella gente lì”.

“Il calcio per me – prosegue Abatantuono – è malattia. Delirio. Estasi e tormento. L’ho giocato fin da bambino, nei campi intorno a casa, al Giambellino. Passione nutrita fin troppo, visti i risultati fisici. Durante ne Il continente nero di Marco Risi, in Africa, avevo chiesto che mi mandassero le copie della Gazzetta , i vhs di Controcampo e della Domenica sportiva e le registrazioni dell’Aboccaperta di Funari. Taccio poi sulle tante postazioni radio improvvisate per ascoltare Il calcio minuto per minuto”.

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Alessandro Avico