La decisione di Beretta è arrivata nel pomeriggio di mercoledì. Per qualcuno è stato un fulmine a ciel sereno visto che l’ultima volta si era astenuto e che, solo ieri, l’Alta Corte aveva bloccato tutto dando ragione ai grandi club. Oggi il rovescio che il presidente Beretta (uno che da due mesi vorrebbe essere uscente causa impegno in Unicredit ma di cui non si trova un sostituto) giustifica così: “Non ho preso le parti degli uni o degli altri, ho fatto fino all’ultimo ogni tentativo per fare una composizione che vedesse il Consiglio di Lega unito nell’attuazione della delibera. A differenza dell’ultimo Consiglio di Lega dove era pendente il ricorso alla Corte di Giustizia Federale, oggi quel ricorso è stato respinto e di fatto la delibera è nella sua piena operatività. C’è una delibera dell’assemblea votata con una maggioranza di tre quarti contestata da un ricorso alla Corte che lo ha respinto. E quindi la delibera è nella sua esecutività e tenendo conto di questo ho ritenuto che così il Consiglio si dovesse posizionare”.
Il primo a replicare a muso duro a Beretta è stato l’amministratore delegato del Milan Adriano Galliani. Parole che hanno anche una punta di minaccia: “”Beretta – ha detto l’ad rossonero – se ne assumerà le responsabilità anche patrimoniali. Smentendo se stesso, dopo essersi astenuto nell’ultimo consiglio, ora si è schierato con una delle parti. E’ un presidente – ha continuato – che da tempo lavora a Unicredit da mattina a sera e in Lega non c’è mai. Ognuno nella vita fa ciò che vuole ma si assume le responsabilità”. Il “botto” poco dopo è arrivato dal presidente della Juventus Andrea Agnelli, pronto a mostrare la faccia cattiva quando in ballo ci sono i denari dopo un solo anno di apprendistato: “Stando così le cose valutiamo la possibilità di uscire dalla Lega”.
Questione di quattrini. Che grandi e piccoli club siano gli uni contro gli altri armati, insomma, è un fatto. Resta solo da capire bene perché. Una premessa è d’obbligo: non ci sono i buoni e i cattivi. Si tratta di una lite sui soldi, su un mucchio di soldi. Quattrini che arrivano dalle tv e che le grandi vorrebbero accaparrarsi in massima parte sulla base di un principio che fa orrore dal punto di vista della solidarietà ma che ha un senso dal punto di vista della competitività. “Noi siamo quelli che investiamo – è il ragionamento dei vari Galliani, Paolillo, Agnelli eccetere – e noi siamo quelle che dobbiamo avere di più, perché altrimenti il calcio italiano perde colpi all’estero e di successi (e posti) nelle Coppe europee ne vedremo sempre meno”. C’è un però. Le grandi hanno già di più, ma vorrebbero il “molto di più”, il quasi tutto. Che le piccole si arrangino pure con le briciole.
L’esempio sommo sta nella punta di disprezzo con cui Ernesto Paolillo, a fine della riunione odierna, condannava la “miopia” e “l’assenza di progettualità” da parte di quei piccoli club che si preoccupano, testuale, “solo di far quadrare il loro bilancio di questo o quell’anno”. Non vede Paolillo o finge di non vedere: nei club, piccoli o normali che si voglia, se non quadrano i bilanci si chiude bottega e non ci si iscrive al campionato. Non tutti hanno quello che gli inglesi chiamano lo “sugar daddy” (il riccone che offre soldi in cambio di prestazioni sessuali ma che nel calcio diventa il megapresidente magnate che ripiana i debiti). Per queste squadre, insomma, far quadrare i bilanci è questione di vita o di morte. Per le grandi, invece, un bacino d’utenza “generoso” può valere anche l’ingaggio di un top player in più. Non un dettaglio.
Per un Paolillo che non vede c’è un “novellino”, Andrea Agnelli, che fa uno sforzo per vedere il mondo a rovescio: “Impossibile sottostare al ricatto di 15 piccole”. Ora, visto che le squadre in serie A sono 20, tecnicamente in 15 non ricattano nulla, ma fanno semplicemente maggioranza, anche robusta. Farebbero, anzi. Perché la Lega che dei grandi club è emanazione si è data un sistema ingarbugliato che proprio per difendere le grandi sta in piedi. In assemblea ci sono tutti e 20 i club di serie a (15 piccole e 5 grandi) ma le società che votano in Consiglio, sono solo 10. E le cinque grandi ci sono tutte. Peggio del diritto di veto del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Alle piccole, che poi tanto piccole non sono, (ci sono squadre come la Lazio), della competitività di Milan, Inter e Juve in Champions frega il giusto, cioè nulla. Posizione espressa in modo solare, nella mattinata di mercoledì, dal presidente del Cagliari Cellino: i grandi club “ci contestano che 15 peones votano contro cinque di sangue blu. Si può discutere di tutto ma vanno riconosciuti i principi democratici”. Idem per il presidente della Lazio Claudio Lotito, talmente arrabbiato dalla decisione di martedì dell’Alta Corte (stop alla delibera dei piccoli club superata nei fatti dal via libera di oggi) da aver smarrito anche il gusto delle citazioni latine e dei tintinnii di manette. Qualche giorno fa il più chiaro era stato il presidente del Parma Ghirardi: “Le grandi si facciano il loro campionato europeo e vorrà dire che le altre 15 faranno un campionato italiano dei poveracci”.
In mezzo c’è la grande anomalia, la Roma, che nel voto di oggi, viene da pensare con una punta di malizia, ha votato due volte: una a favore della delibera e una contro. Rosella Sensi, attuale presidente del club, è da sempre schierata con le altre big. In tutta la faccenda ha tenuto un profilo basso, votando sempre con Galliani e gli altri. Del resto, quello della Sensi, è un nome tra i papabili per il dopo Beretta. C’è un però: la Sensi è una presidentessa a tempo (quasi scaduto) e non più proprietaria. C’è un nuovo presidente all’orizzonte, Thomas Richard Di Benedetto e c’è una proprietà attuale che sta gestendo il passaggio, ovvero Unicredit. La stessa Unicredit dove, a detta di Galliani, Beretta “sta dalla mattina alla sera”. La voce, qualcosa di più visto che Piero Torri lo ha scritto chiaramente sul Corriere dello Sport, è che DiBenedetto non abbia nessuna intenzione, e la banca con lui, di rimanere dalla parte delle big. Il perché è semplicemente detto. DiBenedetto ha fatto i conti e ha capito una cosa non elementare ma decisiva. La Roma, a stare con le piccole, ci rimette qualcosa, ma ci rimette molto meno di Milan, Inter e Juve. Significa che le distanze si accorciano: meglio avere 10 milioni in più con le altre che ne hanno 40 o averne 10 in meno con le altre che ne perdono 40? Il cattivo pensiero, insomma, è che l’improvvisa scelta di votare da parte di Beretta con Unicredit c’entri qualcosa.
Le regole. Attualmente, la questione dei diritti tv è regolata da una legge ad hoc, abbastanza complessa, la Gentiloni- Melandri. Semplificando la norma prevede che il 40% dei diritti tv sia ripartito in parti uguali tra tutti i club, un 30% in base a parametri come “storia del club” e “classifica”, un 5% in base alle dimensioni della città in cui gioca la squadra e l’ultimo 25%, il vero oggetto della discordia, in base ai cosiddetti “bacini d’utenza”. Tutto il caos di questi giorni sta proprio su come stabilirli in modo che sia oggettivo. Anche perché il sospetto è che l’oggettività finirà per togliere soldi alle grandi.
Il tema è sensibile e sentito. Basta andare indietro nel tempo, a qualche mese fa. Era stata organizzata una cena “di riconciliazione”. E’ finita con un ring, con il presidente del Napoli De Laurentiis che prende a pugni quello della Lazio Claudio Lotito, e poi si allontana. Lotito, assai poco cristianamente interessato alla questione dell’altra guancia, ha intenzione di restituire la cortesia ma viene bloccato, e De Laurentiis si dilegua. La tracotanza dei grandi club sta anche in questi episodi qua.