Mourinho, perché? Quelle domande fatte per non dover rispondere

Josè Mourinho (foto LaPresse)

MADRID – Pepe Guardiola lo aveva detto nella conferenza stampa della vigilia: la Champions delle chiacchiere non gli interessava, lui voleva vincere quella in campo.  E mercoledì sera il campo ha parlato chiarissimo: Real Madrid 0 – Barcellona 2 con Josè Mourinho espulso e virtualmente eliminato e catalani a un passo dalla finale di Wembley.

Al di là del risultato, però, è quello che è successo a bordo campo durante la gara e davanti ai microfoni subito dopo la partita che riempirà i giornali anche nei giorni a venire. Mourinho dopo aver cercato e ottenuto l’espulsione è andato in conferenza stampa a dirne di tutti i colori. Due scelte tattiche, da comunicatore consumato. L’espulsione, infatti, è chiaramente voluta: con l’uomo in meno, Mou ha capito che si metteva malissimo e ha pensato che a Barcellona sarebbe stato meglio non esserci. Tra due settimane quando a meno di eventi assolutamente improbabili sarà ratificato il passaggio del Barcellona in finale sarà il suo vice a doverci mettere la faccia.

Stesso discorso per le dichiarazioni del dopo-partita. Mourinho c’è (e ci ha) abituato: quando si perde meglio subito spostare l’attenzione su qualcos’altro. Mercoledì sera è stata la volta dei perché a raffica. In questo è unico: dopo una sconfitta la norma vuole che un tecnico vada a spiegarne il perché. Mourinho invece, “perché” lo chiedeva, insistente e insolente.  Quindi è toccato all’arbitro, “reo” di aver espulso Pepe per un’entrata violenta su Dani Alves. Del rosso si può discutere: il contatto è leggero ma l’entrata è pericolosa e insensata. Questione di interpretazioni. In Spagna, intanto, la maggioranza gli da torto: per il 67% dei lettori di “Marca” il fallo del difensore del Real era da rosso.

Il punto, in ogni caso,  resta un altro: mercoledì sera era il Real a giocare in casa ma non se n’è accorto nessuno.  Ad un certo punto del secondo tempo le statistiche erano imbarazzanti, col Barcellona che aveva quasi l’80% del possesso palla. Mourinho, insomma, ha deciso a tavolino di non giocare la partita, consegnando palla e iniziativa agli avversari per poi randellarli e provare ogni tanto a ripartire in velocità. Una strategia legittima, per carità: forse, però, le centinaia di milioni di persone che erano davanti alla tv meritavano qualcosa di meglio.

Davanti all’umiliazione e alla conseguente archiviazione come episodio della vittoria del Real in Coppa del Re, Mou ha scelto il contrattacco. Se l’è presa con tutto e tutti. Prima è toccato all’arbitro Stark (“se dico cosa penso di lui  la mia carriera finisce oggi”), poi ha evocato i “poteri forti” in campo a fianco del Barcellona. Alla fine se l’è presa persino con l’Unicef, che il Barcellona sponsorizza. Sfocature da amarezza: in campo qualcosa di forte c’era, ma era il Barcellona, non i poteri.

A Guardiola, attaccato prima della partita, Mou ha riservato il carico di veleno più sostanzioso: “Io mi vergognerei di vincere una Champions come quella che ha vinto lui tre anni fa dopo lo scandalo di Londra”. Il riferimento è alla partita in cui il Barca eliminò il Chelsea nel 2009. Allora l’arbitro fu decisivo, niente da dire. Peccato che le reminiscenze dello “special one” siano quantomeno parziali: Barcellona-Inter dell’anno scorso è misteriosamente scomparsa dai ricordi degli “scandali arbitrali”, forse perché la sua squadra allora se ne avvantaggiò. Per Mourinho, quello della memoria “selettiva” è un vizio antico. Anche l’anno scorso, prima di una finale di Coppa Italia con la Roma si lamentò del fatto che si giocasse in gara unica all’Olimpico. L’anno prima, ai quarti, la gara secca fu giocata a Milano e all’allenatore non sembrò circostanza da sottolineare in nessuna conferenza stampa. Ma Mou ricorda solo le porzioni di realtà che servono a dimostrare le sue tesi. Quando sarà stanco della panchina sarà pronto per la politica.

Contro la squadra di Guardiola, quest’anno Mourinho si è scontrato quattro volte: una vittoria in Coppa del Re, un pareggio strappato in campionato e due sconfitte nette. Sul piano del gioco, però, non ha vinto mai. Semplicemente perché il suo Real non ha mai cercato di giocare. Perché? E’ proprio questa la spiegazione che Mou non vuol dare. Come non vuole spiegare perché tutti i centravanti erano in panchina e perché, a organico completo, a centrocampo giocava un difensore centrale, proprio il Pepe della discordia. Per questo alza voce e toni, provoca e spara forte. Si tratta di nascondere una verità evidente: il Barcellona gioca a calcio, il Real no, si accontenta di non far giocare l’avversario. Troppo poco per una società e un pubblico dal palato fino che allontanò uno che si chiamava Fabio Capello dopo uno scudetto vinto perché insoddisfatta sul “piano estetico”. Mou, invece, non vincerà neppure la Liga e con l’arroganza che gli fa da sempre da corazza continua a ripetere che la scelta di rimanere a Madrid spetta a lui e lui soltanto.

Difficile attaccare uno che in questi anni ha vinto tutto: dal “triplete” con l’Inter dell’anno scorso alla Champions capolavoro ai tempi del Porto. Eppure, se a Madrid si aspettavano un “plusvalore” da Mourinho i numeri oggi dicono che non è arrivato: almeno sul campo il Barca è ancora irraggiungibile. Quanto alle parole è tutta un’altra storia. Mourinho è riuscito a convincere alcuni tifosi del Real che la squadra è vittima di una macchinazione arbitrale continuata. Un po’ come se Moggi dei tempi d’oro se ne fosse andato in giro a raccontare dei torti arbitrali subiti per colpa del Brescia o del Catania di turno.

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Emiliano Condò