Intervista di Roberto Beccantini all’ex ct azzurro Dino Zoff.
Dino Zoff, domani la Nazionale compie cent’anni. Cos’è stata, per lei, la maglia azzurra?
«Un simbolo di responsabilità: a livello tecnico e sul piano etico. Mi sono regolato sempre così, da giocatore e da allenatore».
Il fascino resiste?
«Ai miei tempi, mi scusi il bisticcio di parole, la Nazionale era la consacrazione internazionale. Ti vedevano all’estero, era un punto d’arrivo. Oggi, con tutto quello che si sono inventati Fifa e Uefa, è diventata un punto di passaggio».
Rimpianti, rimorsi?
«Ereditai la fascia di capitano da Giacinto Facchetti, ho vinto un Europeo e un Mondiale. A Wembley, la sera in cui per la prima volta battemmo gli inglesi, con il gol di Capello, feci una respinta di pugno e la palla arrivò dritta a metà campo. Pioveva che Dio la mandava, in centomila fecero ohhhhhh. Smisero di trattarci da pizzaioli. La Nazionale come forma di riscatto sociale, anche se non andava di moda cantare l’inno. Con quella maglia addosso, non mi sono mai sentito solo».
Meglio la Nazione o la Nazionale?
«Diciamo che, nei momenti fausti, la Nazionale ha contribuito a unire la Nazione più di qualsiasi governo. L’Italia è, per tradizione, legata alle rivalità sguaiate, al tifo e alle moviole da bar sport. Di ritorno da Madrid, il 12 luglio del 1982, sentii attorno il respiro di un Paese abbastanza vero e finalmente intero».