Come tutte le cose nuove il federalismo fiscale fa paura. Può anche avere ragione chi sostiene che così come è, senza essere inserito in un piano più ampio di riforme, il federalismo può fare danni.
Questo di dire che il problema è più ampio, che tutto va inquadrato in u disegno più complessivo è stato per decenni l’argomento vincente per bloccare tutto. Quando sento parlare di riforma organica mi tornano in mente tutti quelli che hanno detto in passato: non questo ma quello, il problema è un altro, qui si affronta un problema senza vederlo nella sua globalità. Quante volte l’ho sentito: il modo migliore per rinviare tutto e non decidere nulla.
Vero anche è che spesso, quando in Italia si fa qualcosa, ci sono elevate probabilità che il risultato sia un obbrobrio. Ma tant’è, tra l’immobilismo e il rischio, meglio il rischio.
Purtroppo nessuno ci aiuta a capire, perché le posizioni di chi dovrebbe farlo sono viziate o dal pregiudizio ideologico o dalla logica di schieramento. Nella prima categoria c’è la Lega, che sul federalismo fiscale punta molto, mentre il Pd non si sa quanto subordini alle esigenze tattiche dell’opposizione una linea che rischia di renderlo sempre di più lontano dai sentimenti dell’elettore del Nord.
Poi c’è Berlusconi, di cui è spesso difficile capire cosa pensi, che in questo caso è lacerato tra il bisogno di non contrariare Umberto Bossi e la Lega e quello di non ferire troppo brutalmente la componente ex neofascista del suo partito – popolo. In Silvio Berlusconi, come spesso accade, la coerenza ideologica, se ce n’è una, subisce la violenza della contingenza tattica.
E c’è Gianfranco Fini, nel quale invece la scelta di dire sempre il contrario di quel che dice Berlusconi trova sostegno nella tradizione centralista fascista. Oggi Fini è diventato fonte di ispirazione ammirata per molti a sinistra che ancor pochi anni fa fremevano indignati all’idea che un “fascista come Fini” salisse in Campidoglio diventando sindaco di Roma, ma la sua cultura politica è radicata lì, nel pensiero post repubblichino e post fascista, che peraltro ha marcato l’amministrazione pubblica italiana per molti anni dopo la fine della guerra, almeno fino a quando una generazione di funzionari entrati nei ruoli statali verso la fine del ventennio, non ne lasciò i ranghi, grazie anche alla cosiddetta legge dei sette anni, figlia di Giulio Andreotti, che costituisce anche un bell’esempio di come una cosa fatta anche a fin di bene, come quella legge, ebbe conseguenze positive nello fascistizzare lo Stato e tragiche nel decapitare amministrazione pubblica, magistratura, polizia, di persone esperte, competentim capaci.
Per chi la pensa come la pensava Fini, lo stato centralizzato è un dogma e i prefetti sono le vestali di quella religione e infatti il Msi fu contrario fino all’estremo alla istituzione delle Regioni, nel 1970.