I programmi uccisi in culla nei penultimi giorni della tv generalista

Barbara D'Urso (Lapresse)

ROMA – Tre programmi “esonerati” quando il “campionato” della stagione televisiva 2011-2012 non è ancora iniziato. Un brutto segnale che fa gridare “è tutto finito” ai critici tv e agli addetti ai lavori. è finita la tv generalista, sono morti i format, si è spento da quel dì il varietà, i reality iniziano a “rompere i cabbasisi” – come direbbe Montalbano. Tutto vero, ma tutto vero a metà.

Prendiamo in considerazione i tre programmi uccisi nella culla: Star Academy (Raidue), conduttore “Dj Francesco” alias Facchinetti junior, che doveva sostituire un cavallo vincente come X-Factor di Simona Ventura, migrata a Sky. Baila!, conduttrice Barbara D’Urso, che voleva essere la risposta di Canale 5 a Ballando con le Stelle del tandem Milly Carlucci-Raiuno. Quella Raiuno che ha provato a lanciare Me lo dicono tutti con Pino Insegno, senza successo.

Fra i tre fallimenti contiamo due ricalchi di un format vincente e un varietà nuovo. Un risultato che potrebbe far puntare i direttori delle reti generaliste a una strategia difensiva. I primi canali del telecomando, grandi contenitori di programmi quanto più possibile “maggioritari” e trasversali, sono sotto attacco dalle nuove forme di intrattenimento da schermo che offrono opzioni “minoritarie” e fatte a misura di “segmento”: girando fra digitale terrestre, satellite e internet, il professore universitario trova il suo documentario, l’appassionata di cucina trova mille programmi a tema, il cinefilo trova film e serie tv mai arrivate in Italia, il ragazzino trova il video strano.

La strategia difensiva consiste nel rifugiarsi sotto la tonaca di Don Matteo o dietro il camice di Un medico in famiglia. Ovvero in quei programmi e serie tv che vanno bene e continuano ad andare bene perché sortiscono l’effetto rassicurante del già visto. C’è ancora in Italia una buona fetta di pubblico che nulla vuole sapere del caleidoscopio di opportunità che gli offre la post-modernità catodica, che non si spinge con lo zapping oltre le colonne d’Ercole dei 9 tasti dei vecchi telecomandi. Questa è un’opzione.

L’altra sarebbe quella di investire sugli autori, di uscire dalla dipendenza da format – perché spesso, grazie a Dio, un reality che furoreggia in California non viene apprezzato ugualmente in Abruzzo. Di cercare di rilanciare la haute couture che in altre epoche ha fatto la fortuna della televisione italiana: programmi fatti su misura, artigianali e originali, che magari non necessitino di costi produttivi faraonici, al passo coi tempi magri dello spread e del default.

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