Addio a Tabucchi, indimenticabile Mastroianni in “Sostiene Pereira”

ROMA  – C’è una tale fisicità visuale nella parola di Antonio Tabucchi, morto a Lisbona, che spesso si è detto che i suoi romanzi nascevano per diventare film.

In verità, come è accaduto di capire ai registi che sono cimentati con le sue storie, quella parola visiva si scioglie sullo schermo e non sempre trova lo stesso spessore di echi e risonanze. Anche il suo romanzo più celebre, ‘Sostiene Pereira’, adattato per lo schermo da Roberto Faenza con la collaborazione dello scrittore, è rimasto nella memoria più per l’intenso mimetismo che Marcello Mastroianni ha saputo dare al personaggio principale che non per la riuscita complessiva.

Chiamato a ricordare quell’esperienza al festival di Locarno nel 2002, Tabucchi diceva: ”Il personaggio di Pereira e’ nato nella mia immaginazione e, anche se non ho descritto il volto, sapevo bene qual era la sua faccia. Poi c’e’ stato il film di Roberto Faenza tratto dal mio libro. Da allora se ripenso a Pereira riesco solo a vederlo con la faccia di Mastroianni e questo e’ il piu’ bel ricordo che mi e’ rimasto di lui”. La storia del suo amore per il cinema e’ in effetti piu’ lunga e comincia come un’esperienza da autentico cinefilo, formatosi davanti alle grandi opere del neorealismo ma anche dei film americani, con una speciale predilezione per ‘Via col vento’, scoperto da bambino nell’immediato dopoguerra. Forse non e’ un caso che, chiamato ad esprimere le sue passioni in fatto di film, rispondesse: ”Il regista che forse amo di piu’ in assoluto e’ Fellini, per cui conservo un affetto speciale fin dai tempi dello ‘Sceicco Bianco’ e dei ‘Vitelloni’.

Fellini è un universo a sé, alimentato dalla forza di una fantasia scatenata. Lui non si e’ mai imposto autocensure, anzi, al contrario, e’ uno che e’ sempre andato dove più desiderava”.

Con Fellini, però, non lavorò mai, cercato e prediletto piuttosto da autori giovani che ne scoprivano, affascinati, la straordinaria modernita’. Comincio’ nel 1989 il giovanissimo Massimo Gugliemi che a lui si rivolse per la sua opera d’esordio, ‘Rebus’ con Charlotte Rampling: una produzione ambiziosa e complessa, voluta dal giovane produttore Roberto Cicutto e poco valorizzata all’epoca. Poi fu la volta di Alain Corneau che si innamoro’ del suo ‘Notturno indiano’ (nello stesso 1989), di Fernando Lopes che adatto’ nel 1993 ‘Il filo dell’orizzonte’, di Roberto Faenza che ne fece un autore popolare grazie a ‘Sostiene Pereira’ nel ’95. Eppure, nonostante le collaborazioni con Silvio Soldini (appare anche come attore in ‘Rom Tour’ del 1999) e di un maestro a lui molto affine come lo svizzero Alain Tanner (‘Requiem’, 1998), Tabucchi rimane piu’ un osservatore del cinema che un diretto protagonista. Amava molto quest’arte, fu piu’ di una volta giurato ai festival internazionali e acuto osservatore, critico o polemista. Della scena italiana all’inizio degli anni 2000 diceva: ”Ci sono molti autori che mi piacciono, giovani e meno giovani. Nanni Moretti, Mario Martone e mi fermo qui con i nomi per non fare torti a chi ora dimentico. Sono convinto che in Italia si facciano bei film, anche se poi subentra il problema della distribuzione e del dove poter vedere queste opere”. Ma la sua visione del racconto per immagini resta anche oggi un’analisi lucidissima ed emozionante: ”Non e’ detto che il cinema sia esclusivamente un’arte industriale e quindi un’arte di mercato. Lo e’ anche, ma non solo. L’importante e’ proprio non cedere a quegli imperativi che sembrano non concedere alternative, ma sapersi conservare dei salutari margini di liberta’. Anche perche’ tutti li possono rivendicare in qualsiasi momento”.

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